Anema e core
Alcune poesie "in tema" da grandi autori della tradizione napoletanaa
RAFFAELE VIVIANI
SALVATORE DI GIACOMO
EDUARDO DE FILIPPO
PUPELLA MAGGIO
RAFFAELE VIVIANI
Fu, prima di tutto, attore e capocomico, autore di teatro, poeta e cantautore. Ed è proprio l’esperienza di attore che ha influito sulla sua scrittura, sul suo specialissimo modo di scrivere o di riscrivere i testi poetici, conferendogli grandissima originalità.
Nacque nel 1888 a Castellammare di Stabia, in provincia di Napoli. Il vero cognome del commediografo era Viviano e, solo quando divenne noto, fu mutato in Viviani, considerato dal medesimo Raffaele più artistico e teatrale. La sua era una famiglia povera. La grande passione per il teatro gli fu trasmessa, fin da piccolo, dal padre, impresario e vestiarista teatrale dell’Arena Margherita di Castellammare di Stabia e, dopo il trasferimento a Napoli, fondatore del teatro Masaniello presso Porta Capuana e proprietario di piccoli teatri popolari.
Papiluccio – appellativo col quale Viviani veniva chiamato dai suoi cari – era appena un ragazzino quando gli morì il padre e dovette occuparsi della madre e della sorella Luisella, anch’ella giovane attrice e grande cantante. I tre vissero nella più cupa disperazione e miseria.
Nonostante fosse una persona analfabeta, Raffaele Viviani volle studiare da autodidatta per migliorarsi, riuscendo così a riscattarsi socialmente e culturalmente dopo un lungo tirocinio, da artista poliedrico quale egli era. Con la sua compagnia di teatro di prosa dialettale (fondata nel 1917 e diretta personalmente da lui fino al 1945) di cui fece parte anche la sorella, fu ammirato e apprezzato in tutti i teatri d’Italia, d’Europa e oltre Oceano. Il suo debutto di attore, autore e regista avvenne il 27 dicembre del 1917 al Teatro Umberto di Napoli, quando inscenò il dramma ‘O vico, commedia in un atto in versi, prosa e musica.
Il suo teatro è fatto di creature vive, di ritratti umani tragico-comici della società napoletana e non di figure romanzesco-letterarie. Il suo non è un popolo piccolo borghese di matrice scarpettiana, ma un popolo di scugnizzi, di spazzini, di guappi, di prostitute, di ladri, di miseri vagabondi, di venditori ambulanti, di vicoli, di rioni e di quartieri napoletani degradati, dove si vive un’esistenza faticosa e penosa, di indigenza e di emarginazione. Sulle tavole del suo palcoscenico prendono vita i sentimenti, le ansie, le passioni, le gioie, i problemi, le lotte, le ingiustizie e le rivendicazioni di questa umile plebe napoletana, che diventa metafora dell’intero universo. Viviani analizza attentamente la realtà sociale in cui vive per poi rappresentarla sul palcoscenico attraverso “macchiette”, percorse da una vena crudelmente neorealistica e una comicità e un’ironia ricche di tragico sentimentalismo.
Tuttavia la scena realistico-popolare di Viviani è fatta di umorismo, di versi, musica, canti e balli; essa è un insieme di numeri che fanno parte di un genere teatrale minore, detto per l’appunto Varietà, che si diffuse verso fine Ottocento e primo Novecento. Il varietà popolare vivianesco dovette però fare i conti con l’Italia fascista. L’Italia perbenista, la borghesia benpensante e la cultura e la censura fascista chiesero ed ottennero i tagli sui copioni vivianei. Il fascismo era pronto ad ostacolare la diffusione delle compagnie dialettali e quel teatro regionale-popolare, di cui Papiluccio era rappresentante.
SALVATORE DI GIACOMO
Con Salvatore Di Giacomo comincia a delinearsi la canzone napoletana d’autore. Il “signor poeta”, come lui stesso amava definirsi - e non è chiaro se lo facesse con tono supponente o scherzoso - ebbe come collaboratori musicisti di grande levatura quali Mario Pasquale Costa (che sarà il suo preferito), Francesco Paolo Tosti, Enrico De Leva, Vincenzo Valente.
Più di un critico ha sostenuto che il dialetto di Di Giacomo è napoletano fino a un certo punto o che è palesemente arcaico o che addirittura non è affatto napoletano. E’ stato osservato che nella sua intera produzione la parola “Napoli” ricorre solo tre volte. I maggiori studiosi dell’opera poetica novellistica e teatrale di Di Giacomo furono non napoletani e la sua produzione non è patrimonio locale bensì universale. Francesco Flora scrive: “Il napoletano di Di Giacomo ha accresciuto di una nuova dimensione la napoletanità e l’ha consegnata ai lettori d’Italia e del mondo”. E si pensi che il Nostro fu contemporaneo di poeti come Carducci, Pascoli e D’Annunzio. Solo dopo la raccolta di Ariette e sunette (1898), la critica, tramite un saggio rivelatore di Benedetto Croce, troverà in Di Giacomo, ormai libero da formule naturalistiche, una delle maggiori espressioni liriche dell’epoca.
Salvatore Di Giacomo era nato il 12 marzo 1860 da Francesco Saverio, medico, e da Patrizia Buongiorno. Dopo aver seguito gli studi classici, tentò di calcare le orme paterne iscrivendosi alla facoltà di Medicina e Chirurgia. Arrivò fino al terzo anno di università. Un giorno un bidello, certo Setaccio, lasciò cadere a terra, per un movimento falso, un recipiente contenente brandelli di membra umane su cui si erano esercitati i bisturi degli studenti; il macabro episodio impressionò talmente Di Giacomo da indurlo a rinunciare alla laurea. Il mancato dottore, grazie all’amicizia con uno dei migliori giornalisti del tempo, Martino Cafiero, venne assunto al Corriere del Mattino e fu proprio grazie a questo giornale che il suo destino subì una importante svolta..
Lo stesso Martino Cafiero nel luglio 1882 incontra il non ancora celebre Mario Costa e gli chiede di musicare una poesia scritta da Di Giacomo, nella speranza di poter sovrastare il successo raggiunto due anni prima dalla canzone Funiculì funiculà. Con l’aggraziata musica di Costa, Nannì - questo il titolo della poesia in questione - venne eseguita ai primi di settembre nella villa comunale, già al tempo dotata di una splendida “cassa armonica”, opera dell’architetto Enrico Alvino. Il pubblico mostrò non gradire la canzone: ad ogni strofa, in coro, la folla scandiva la parola “amen”. Di Giacomo si allontanò avvilito. Tuttavia, appena un mese dopo, Nannì era entusiasticamente sulla bocca di tutti i napoletani.
Il successo inebriò Di Giacomo e lo indusse a fare a gomitate nel mondo del giornalismo. In quello stesso anno lo troviamo al Pro Patria, giornale irredentista e repubblicano diretto da Arcangelo Ghisleri, e quindi al Pungolo che era allora la più importante testata napoletana. Per raggiungere gli uffici del Pungolo, Di Giacomo doveva, da via Toledo, svoltare per via Latilla. Lì sorgeva il banco di Carolina, una bruna venditrice di bibite con la quale il poeta, consapevole della poca fortuna che aveva con le donne, soleva scambiare qulche timida chiacchiera. Anche la donna amata da Mario Costa si chiamava Carolina, figlia del notissimo fotografo Sommer. Insieme composero una canzone dal titolo appunto Carulì, del 1885, edita da Santoianni.
Fu molto chiacchierata la sua relazione con la celebre cantante napoletana Emilia Persico che incantò, con la sua chioma dorata e i suoi occhi azzurri, il casto poeta. Emilia Persico era una delle numerose “sciantose” - da "chanteuses" - che popolavano la Napoli della Belle Epoque di fine Ottocento, quando la città, appena flagellata dal colera, viveva una stagione di divertimenti nei famosi café-chantant, dove si cercava rifugio dai problemi e dall’incertezza del domani, tra spettacoli fatti di canzoni, balletti e piccole rappresentazioni teatrali. Lo stesso Salvatore Di Giacomo si chiedeva cosa spingesse queste ragazze del popolo ad una scelta piena di pericoli e delusioni: "Ma che cosa dunque sospinge sulle libere scene del Café Chantant queste sciagurate di cui la numerosa e recentissima schiera è addirittura una germinazione di plebe? Quale desiderio, quale necessità solleva il volgo fino a fargli raggiungere luoghi ove prima l'arte addusse più aristocratici, più adatti elementi alla sua manifestazione e alla sua parola?". Una delle ragioni principali era sicuramente la necessità di sfuggire alla miseria, oltre che il sogno di una carriera artistica, a volte ingenuamente vagheggiata. Successivamente questa figura acquistò maggiore prestigio e professionalità, tanto da attrarre uomini di cultura e artisti, divenendo l’antenata dell’odierna soubrette.
Non trascurando una fervida attività di novelliere e di erudito, e passando dal Pungolo al Gazzettino, Di Giacomo si avviava verso la celebrità. Erano di moda gli abbigliamenti alla Di Giacomo, costituiti da giacca a righe con bavero alzato, da cappello a cencio e canna di bambù. Ma sorsero anche gli oppositori: contro le innovazioni del giovane poeta che dava al dialetto alta dignità, si lanciarono tutti i conformisti di Napoli. L’Accademia dei Filopatridi, capeggiata da Emmanuele Rocco, attraverso il giornaletto Spassatiempo, accusò Di Giacomo di mettere troppa dolcezza nei versi, mentre il popolo napoletano - si sosteneva - era più rumoroso, più vivace, più sanguigno. Per rispondere a questi e ad altri addebiti, nel 1886 Di Giacomo pubblicò Funneco verde, una raccolta di scenette poetiche ambientate nei vicoli napoletani: un autentico capolavoro, il gioiello forse più prezioso della sua produzione.
Nello stesso tempo si occupò di teatro: ‘O voto, scritto in collaborazione con Cognetti; A San Francisco; altra opera importante fu 'O mese mariano, tratta dalla novella "Senza vederlo", portata poi in televisione con l'interpretazione di Titina De Filippo; Assunta Spina, probabilmente il suo dramma più noto, tratto dalla sua novella omonima, ripetutamente rappresentato e poi adattato per il cinema e per la televisione; Quand l’amour meurt e l’Abbè Pèru. Non voltò giammai le spalle alla canzone.
Nel 1887 divenne celebre ‘A ritirata, musicata da Costa ed edita dalla Società Musicale Napoletana. Per i versi di ‘A ritirata , Salvatore Di Giacomo si ispirò a un doloroso fatto d’armi. Nel gennaio 1887 i seicento soldati italiani che presidiavano Dogali, un villaggio fra Asmara e Massaua, furono assaliti da 10.000 guerriglieri di Ras Alulà e, dopo un’epica resistenza si videro costretti a ritirarsi: i superstiti furono solo ottanta. La musica di Mario Costa di ‘A ritirata venne eseguita per la prima volta nella piazza del Plebiscito dalla fanfara dei bersaglieri, alla presenza del generale Avogadro. Da allora, tutti i contingenti dei soldati italiani che s’imbarcavano per l’Africa vennero accompagnati al porto dalla fanfara che suonava ‘A ritirata. Molte madri e fidanzate abbracciarono per l’ultima volta i loro cari mentre una fanfara eseguiva la canzone di Di Giacomo e Costa.
Dopo una non lunga permanenza al Corriere di Napoli di Eduardo Scarfoglio e Matilde Serao, Di Giacomo abbandonò il giornalismo militante e andò a dirigere, senza nomina ufficiale, la biblioteca Lucchesi Palli, annessa a quella Nazionale. Tuttora gli schedari di quella biblioteca sono ricoperti della sua calligrafia, minuta e chiara.
Fu lì, al cospetto di quei vecchi libri, che un giorno del 1905, Salvatore Di Giacomo, diventato quasi un divo per il successo riscosso dalla commedia Assunta Spina, vide avvicinarsi al suo tavolo una ragazza bella e disinvolta. Figlia di un magistrato di Nocera Inferiore, Elisa Avigliano doveva approntare, per la sua imminente laurea, una tesi sulla poesia, manco a dirlo, di Salvatore Di Giacomo. I due si innamorarono e fu lei a comunicarglielo per via epistolare. L’idillio, castissimo, durò tredici anni ed è documentato in un libro pubblicato nel 1975, dal titolo Lettere ad Elisa: si sposarono il 20 febbraio 1916.
Nel 1924, Di Giacomo fu indicato da Mussolini per la nomina a senatore, ma la sua candidatura fu bocciata dalla camera alta. “Piedigrotta in Senato”, ironizzarono taluni invidiosi. Per il poeta fu un colpo durissimo, da cui si riprese solo quando fu chiamato a far parte dell’Accademia d’Italia nel 1929. Non partecipò mai alle sedute di quell’organismo perché non era in condizioni di acquistarne la divisa.
Il più grande poeta napoletano morì, dopo un attacco di uricemia, la sera del 4 aprile 1934. Alle esequie, la banda lo accompagnò suonando la canzone ‘A Marechiare.
EDUARDO DE FILIPPO
Grande commediografo e attore di grossa fama Eduardo De Filippo nacque il 24 maggio 1900 a Napoli da Luisa De Filippo ed Eduardo Scarpetta. Al pari dei fratelli cominciò ben presto in palcoscenico, il suo debutto avvenne alla verde età di quattro anni al teatro Valle di Roma, nel coro della rappresentazione di una operetta scritta dal padre.
Dopo quella prima breve esperienza prese parte ad altre rappresentazioni sia come comparsa, sia rivestendo altre piccole parti. A soli undici anni, per il suo carattere un po' turbolento e per la scarsa propensione agli studi, venne messo nel collegio Chierchia di Napoli. Ciò non servì a farlo riappacificare con le istituzioni scolastiche, per cui solo due anni dopo, quando era al ginnasio, interruppe gli studi. Continuò la sua istruzione sotto la guida del padre Eduardo che lo costringeva per due ore al giorno a leggere e ricopiare testi teatrali non disdegnando, quando capitava l'occasione, di prendere parte a lavori teatrali nei quali dimostrava una innata bravura, in modo particolare per il repertorio farsesco.
All'età di quattordici anni entrò nella compagnia di Vincenzo Scarpetta, nella quale recitò ininterrottamente per circa otto anni. In questa compagnia teatrale Eduardo fece di tutto, a cominciare dal servo di scena, all'attrezzista, al suggeritore, al trovarobe, fino a quando nel 1920 non s'impose per le sue doti recitative nei ruoli di comico primario e per la sua spiccata propensione all'inventiva. E' datato 1920 il suo primo atto unico pubblicato: "Farmacia di turno".
Il suo impegno artistico era tale e tanto che anche durante il servizio militare Eduardo, nelle ore libere, si recava in teatro a recitare.
Finito il servizio militare nel 1922 Eduardo De Filippo lasciò la compagnia di Vincenzo Scarpetta passando a quella di Francesco Corbinci, con il quale esordì al teatro Partenope di via Foria a Napoli con “Surriento gentile” di Enzo Lucio Murolo; fu in questo lavoro che Eduardo si cimentò per la prima volta in una regia impegnata.
Nel 1922 scrisse e diresse un altro suo lavoro teatrale, "Uomo e galantuomo".
Lasciata la compagnia di Francesco Corbinci ritornò in quella di Vincenzo Scarpetta, rimanendovi fino al 1930.
In questo periodo conobbe e sposò Doroty Pennington, un’americana in vacanza in Italia e recitò anche in altre compagnie come quella di Michele Galdieri e di Cariniù Falconi; nel 1929 con lo pseudonimo di Tricot scrisse l'atto unico "Sik Sik l'artefice magico".
Nel 1931 con la sorella Titina ed il fratello Peppino formò la compagnia del Teatro Umoristico, debuttando al teatro Kursaal il 25 dicembre con il capolavoro "Natale in casa Cupiello" che all'epoca era solo un atto unico.
Rimase a capo di questa compagnia fino al 1944 riscuotendo ovunque successi e consensi, diventando inoltre una vera e propria icona di Napoli.
Eduardo De Filippo muore il 31 ottobre 1984 in una clinica romana dove era stato ricoverato pochi giorni prima. La sua eredità artistica è stata portata avanti degnamente dal figlio Luca.
PUPELLA MAGGIO
Giustina Maggio, in arte Pupella, nasce a Napoli il 24 aprile 1910 in una famiglia di artisti: il padre Domenico, detto Mimì, è un attore teatrale e la madre, Antonietta Gravante, è anche lei attrice e cantante.
Pupella appartiene ad una famiglia molto numerosa; ha ben quindici fratelli non tutti sopravvissuti, come accade spesso ad inizio Novecento. Il suo destino di attrice è deciso sin dalla sua nascita; infatti viene alla luce nel camerino del Teatro Orfeo, oggi non più esistente. Si racconta che il suo soprannome, rimastole per tutta la vita, derivi dal titolo della prima rappresentazione, "Una pupa movibile" di Eduardo Scarpetta, a cui l'attrice partecipa ad appena un anno di vita. Pupella viene portata a spalla dal padre in una scatola e, per evitare che possa scivolare, viene legata proprio come se fosse stata una bambola. Nasce così il nomignolo Pupatella, poi trasformato in Pupella.
La sua carriera artistica comincia proprio nella compagnia teatrale itinerante del padre insieme ai suoi sei fratelli attori: Icario, Rosalia, Dante, Beniamino, Enzo e Margherita. Pupella, che abbandona la scuola dopo aver frequentato la seconda elementare, recita, balla e canta in coppia con il fratello più piccolo Beniamimo.
La svolta nella sua vita e nella sua carriera avviene quando ha già quaranta anni, epoca in cui la compagnia itinerante paterna si scioglie. Stanca della vita errante dell'attore si impiega prima come modista a Roma, e poi, addirittura, come operaia in un'acciaieria di Terni, dove si occupa anche dell'organizzazione degli spettacoli del dopolavoro.
Ma la passione per il teatro ha la meglio, e dopo un periodo in cui lavora nella rivista della sorella Rosalia insieme a Totò, Nino Taranto e Ugo D'Alessio, incontra Eduardo De Filippo. Siamo nel 1954 e Pupella Maggio comincia a recitare nella Compagnia Scarpettiana con cui Eduardo mette in scena i testi del padre Eduardo Scarpetta.
La consacrazione di Pupella come attrice avviene dopo la morte di Titina De Filippo, quando Eduardo le dà la possibilità di interpretare i grandi personaggi femminili del suo teatro, da Filumena Marturano a donna Rosa Priore in "Sabato, domenica e lunedì", ruolo che Eduardo scrive per lei e che le vale il premio Maschera D'Oro, fino alla famosissima Concetta di “Natale in casa Cupiello".
Il sodalizio Pupella-Eduardo si rompe nel 1960, a seguito anche di incomprensioni caratteriali dovute alla severità del maestro, ma si ricuce quasi subito. L'attrice continua a lavorare con Eduardo De Filippo, intervallando il loro sodalizio con altre esperienze artistiche.
Recita così ne "L'Arialda" di Giovanni Testori per la regia di Luchino Visconti. Da questo momento in poi l'attrice intervalla il teatro con il cinema. Recita, infatti, ne "La Ciociara" di Vittorio De Sica, "Le quattro giornate di Napoli" di Nanni Loy, "Sperduti nel buio" di Camillo Mastrocinque, "La Bibbia" di John Huston nel ruolo della moglie di Noè, "Il medico della mutua" di Luigi Zampa al fianco di Alberto Sordi, "Armarcord" di Federico Fellini nel ruolo della madre del protagonista, "Nuovo cinema Paradiso" di Giuseppe Tornatore, "Sabato Domenica e Lunedì" di Lina Wertmuller, "Fate come noi" di Francesco Apolloni.
A teatro recita diretta da Giuseppe Patroni Griffi in "Napoli notte e giorno" e in "In memoria di una signora amica" al fianco del regista napoletano Francesco Rosi. Dal 1979 inizia anche il suo sodalizio teatrale con Tonino Calenda per il quale recita ne "La madre" di Bertolt Brecht tratto dal romanzo di Massimo Gor'kij; "Aspettando Godot" di Samuel Beckett nel ruolo di Lucky, a fianco di Mario Scaccia e in "Questa sera...Amleto".
Nel 1983 Pupella Maggio riesce anche a riunire i suoi due unici fratelli superstiti, Rosalia e Beniamino, con i quali recita in "Na sera ...e Maggio" per la regia di Tonino Calenda. La rappresentazione ottiene il Premio della Critica teatrale come migliore spettacolo dell'anno. Purtroppo però il fratello Beniamino viene colto da ictus nei camerini del teatro Biondo di Palermo e muore.
Nel 1962 Pupella sposa l'attore Luigi Dell'Isola dal quale divorzia nel 1976. Dal matrimonio nasce una sola figlia, Maria, con la quale condivide a lungo la permanenza nella città di Todi che diventa quasi la sua seconda città. Ed è con un editore della cittadina umbra che Pupella pubblica nel 1997 il libro di memorie "Poca luce in tanto spazio", che contiene, oltre a tanti ricordi personali, anche le sue poesie.
Pupella Maggio muore a quasi novanta anni, l’ 8 dicembre 1999 a Roma.
'A mamma
(Raffaele Viviani)
Mbriaco
(Salvatore Di Giacomo)
'E ccerase
(Salvatore Di Giacomo)
'O rrau'
(Eduardo De Filippo)
'A bionda avvelenata
(Pupella Maggio)