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LA PIZZA, FOCACCIA DIVINA
di Franco Salerno*
All’inizio del Terzo Millennio vi è qualcuno che ha tremila anni. Chi è questa creatura antica e immortale? E' presto detto: la pizza, una delle glorie nazionali o, meglio, mediterranee, nata nelle casarecce-goderecce terre del Sud, che fa della sua cucina, anche quando è "povera", una spinta verso l'abbondanza, l'impinguamento, la soddisfazione del palato e dello stomaco.
La pizza è un alimento "totale", perche essa segna il trionfo dei cinque sensi. L'occhio è catturato dal contrasto tra il bianco della mozzarella, il rosso della salsa e il verde del basilico; l'orecchio dallo scoppiettio del forno a legna; l'olfatto dall'inconfondibile profumo; il gusto dall'ovvio atto del manducare.
E poi c'è il tatto: non ci dimentichiamo che la pizza si mangia con le mani, che, dopo averla fatta in quattro rituali parti, la piegano e la depositano in un altro forno: quello della bocca.
La pizza, creatura mediterranea. La data di nascita della pizza, riconducibile a tre millenni fa, è stata ormai stabilita da una Commissione di storici, riunitisi addirittura davanti ad un giudice di San Francisco nel corso di un regolare processo, svoltosi presso la Court of historical review and appeals. I medesimi studiosi hanno diradato i dubbi anche sul luogo di nascita, che, secondo loro, è inequivocabilmente l'area mediterranea e l’Italia in particolare. E’ caduta dunque l'orgogliosa rivendicazione di parte cinese: non era mancato infatti chi, conferendo un che di esotico a un piatto tutto mediterraneo, aveva ricondotto la pizza alla vivanda cinese denominata ping tze, prediletta presso la Corte imperiale del XIII sec.
E una creatura cosi antica non poteva non avere un'origine divina. E sì; perchè vi sarebbe addirittura un mito che nell'antica letteratura greca spiega la genesi della pizza. E' quello contenuto nell'inno pseudo-omerico A Demetra. Il racconto e il seguente. Demetra, la Grande Madre, e alla ricerca della figlia Persefone o Kore, che e stata rapita da Plutone, dio dell'Oltretomba. Ella, nelle sue peregrinazioni, giunge ad Eleusi, in Attica, e, ospitata da Celeo e Metanira, ricambia la loro cortesia, salvando il loro figlio Trittolemo, privo del latte materno, dandogli il proprio latte.
Inoltre, di nascosto, per conferirgli l'immortalità, lo fa passare su delle fiamme ardenti. Sorpresa da Metanira in questo strano rito, Demetra si adira, placandosi solo quando la donna le offre una pietanza particolare: un misto di farina con acqua e puleggio (che con termini latini sarà chiamato ocymum basilicum), cotto poi sul fuoco.
Si tratta, come si vede, dei fatidici ingredienti della pizza, che, poi, si sarebbe diffusa nelle Feste Eleusine, celebrate da donne greche, provenienti da Napoli e da Velia, e nelle botteghe a Pompei dei placentari (gli antenati dei pizzaioli): placenta deriva dal greco plax, che significa “superficie schiacciata”. E placenta è solo uno dei nomi degli antenati della pizza, che si chiamarono maza, scriblites, moretum e offa.
Il simbolismo degli ingredienti. Tutti conoscono i mitici ingredienti di base della pizza, elementari eppur insostituibili: acqua, farina, sale, lievito, pomodoro, basilico, origano, aglio e olio. Pochi però si soffermano a riflettere sui valori simbolici che essi esprimono, nella storia dell'immaginario collettivo e delle culture antiche e moderne, e che conferiscono ulteriore nobiltà alla pizza. Proviamo allora a ripercorrere insieme la storia della loro simbologia.
Cominciamo dall'acqua. Ricettacolo di tutte le energie, essa è la sostanza rituale per eccellenza: sostenta e guarisce a livello fisico, assicura la salvezza a livello spirituale. La farina, invece, simbolicamente rappresenta l'elemento essenziale del nutrimento dell'uomo, che è rappresentato dal pane, il quale viene generalmente visto anche come cibo spirituale. Vi era, nei Misteri di Eleusi, una cerimonia, che ricordava l'unione mistica di Zeus con Demetra e consisteva nella presentazione di un chicco di grano agli iniziati, fedeli a Demetra come dea della fecondazione.
Il sale e simbolo di saggezza (fin troppo nota e l'espressione popolare "avere sale nella zucca"), ma anche di incorruttibilità: se nella cucina popolare "metter sotto sale" equivale a preservare gli alimenti, nel linguaggio biblico l' “alleanza del sale” indica un'alleanza fra l'Uomo e Dio che non si puo infrangere. Simbolo di trasformazione e ingrandimento e il lievito, che rinvia anche ad una condizione, soprattutto psicologica, di sollievo (“levatum” significa appunto "sollevato").
Un capitolo a parte è il significato del pomodoro. E' l'ultimo ingrediente arrivato nella millenaria storia della pizza. Originario dell'America Meridionale e, in particolare, del Perù, e stato introdotto nel 1500 in Europa e nel secolo successivo in Italia, dove pero il termine è attestato fin dal 1544. Con il suo rosso rimanda a vari simboli. Innanzitutto alla forza della passione: non a caso, fu anche denominato “pomo d'amore” (vedi il francese “pomme d'amour”). In secondo luogo, rinvia al sangue, che scorre in profondità nelle arterie.
Altrettanto regale è il basilico, il cui nome deriva dall'aggettivo greco “basilikos” (da “basileus”, che significa “re”). Alle sue foglie vengono attribuiti poteri magici: erano percio usate per fare scongiuri e per tener lontani gli spiriti maligni.
Altrettanto esotico è l'origano. Pianta medicamentosa, di origine africana, esso fu ben conosciuto presso i Greci, nella lingua dei quali è attestata un’espressione che indicava potenza: guardare “origanon” significava "guardar truce o biecamente".
Ed eccoci all’aspetto magico della pizza. Esso è rappresentato dall'aglio. Conosciuto gia dagli Egiziani, che lo consideravano un dio in quanto antidoto contro i serpenti a causa del suo odore, veniva mangiato dagli schiavi addetti alla costruzione delle Piramidi per il suo alto potere nutritivo. Inoltre, è noto come l'aglio sia considerato un ottimo rimedio contro il malocchio.
Dall’elemento magico a quello corroborante, rappresentato dall’olio. Esso e simbolo di ricchezza e di predilezione divina: tutti i grandi Re ebraici venivano "unti" con l'olio (la parola stessa “Cristo” significa “l’Unto”). Il suo dispiegarsi sulle vivande si traduce in linee sinuose, quasi sensuali. Il suo trionfo è celebrato dal pizzaiolo, che dalla caraffa con il suo becco affusolato disegna artisticamente mobili flussi debordanti sul rosso mare del pomodoro. Dopo l’ultimo tocco di classe dato dall’olio, la pizza è pronta per il forno.
La tipologia piu famosa: la pizza Margherita. La più celebre specialità di pizza è la pizza Margherita, che fu inventata (o, forse, solo resa famosa) dal cuoco Raffaele Esposito per la Regina Margherita in visita a Napoli nel giugno del 1889.
L'Esposito, un pacioccone dal volto simpatico, allora gestiva a Napoli una pizzeria dall'originale nome, Pietro...e basta così. Essa derivava da uno dei primi proprietari, di nome Pietro Calicchio, a tutti noto con il soprannome "Pietro il pizzaiuolo". Su invito del re Umberto I, in visita a Napoli, Raffaele si recò, accompagnato dalla moglie Pasqualina Brandi, alla Reggia di Capodimonte, dove giunse su un carrozzino, trainato da un asinello.
Il bravo Raffaele si sbizzarri nella sua arte culinaria, offrendo al sovrano e alla consorte ben tre tipi di pizze: una con i cecinielli, un'altra con olio, formaggio e basilico e la terza (il cui destino fu più "regale") con pomodoro, mozzarella e basilico. Quest'ultima il geniale pizzaiolo la chiamò Margherita appunto in onore della Regina. La quale gratificò vistosamente Raffaele, inviandogli una lettera, datata 11 giugno 1889, che recita testualmente così: "Pregiatissimo Signor Raffaele Esposito, Napoli. Le confermo che le tre qualità di pizze da Lei confezionate per Sua Maestà la Regina vennero trovate buonissime. Mi creda di Lei devotissimo Galli Camillo, Capo dei Servizi di Tavola della Real Casa." Il testo è conservato ed esposto nel locale, che è l'erede della mitica antenata Pietro...e basta cosi, cioe la Pizzeria Brandi, sita in Via Salita Sant'Anna di Palazzo (angolo Via Chiaia), nn.1-2.
La pizza a Napoli tra musica e letteratura. L'ultima tappa del nostro itinerario è rivolta a gustare i testi di alcuni poeti contemporanei in vernacolo sulla pizza.
Apre la nostra breve rassegna il brano dal titolo 'O pizzaiuolo nuovo, che e una canzone, scritta da Giovanni Capurro e musicata da Salvatore Gambardella. Due nomi che sono tra le glorie della canzone napoletana: il primo è l'autore di 'O sole mio e il secondo, umile garzone di un negozio di ferramenta, fu il compositore di Marenariello. Il testo che ha un ritmo allegro e vivace e si avvale di un rimeggiare popolaresco, descrive il brulicare del quartiere del Cavone vicino Piazza Dante, che si mobilita quasi inseguendo la scia del profumo, anzi delle bellizze, della pizza appena sfornata.
E passiamo ora a 'O pizzaiuolo, una poesia di Raffaele Viviani (1888-1950): altro contesto, altro pizzaiolo, altri sentimenti. Siamo nei primi anni '40 del nostro secolo: c'è la guerra, c'e la disperazione, c'è il freddo, ma soprattutto c'è la fame. Un povero pizzaiolo è uscito per i vicoli di Napoli con il suo ruoto in testa, pieno di pizze che spera di rifilare agli infreddoliti e squattrinati passanti. Passano cinque ore, ma di acquirenti nemmeno l'ombra: e intanto le pizze son diventate fredde, quasi delle taccuscelle, cioe delle suole per le scarpe. Beh! si consola il miserello: almeno gli serviranno per farsene chianelle, vale a dire delle umili babbucce.
Prova egli allora ad invitare ad affrettarsi all'acquisto tutti quelli che incontra, dicendo che egli sta ormai per andarsene. "E vattenne": gli rispondono poco elegantemente i passanti, che non perdonano a lui (che magari una pizza l'avrà assaggiata) di stuzzicarli, senza che essi, poveri in canna, possano saziare la loro atavica fame.
Ed eccoci all'ultimo testo: 'A pizza, poesia di Amedeo Mammalella (1889-1968). L'autore, diplomatico e docente di Letteratura italiana all'Università di Curityba in Brasile, esponente del Gruppo 'O sciaraballo, che dedicò nell'ottobre del 1963 un suo "Quaderno" alla pizza, ha scritto questa suggestiva lirica che chiude la nostra carrellata. Essa punta poeticamente sull'incantesimo del colore e sulla bellezza della pizza: di qui il paragone con il volto di una fanciulla, con gli acini di un melograno, con la bocca di una bella donna, con il sorriso di una Luna piena in una suggestiva e romantica sera d'estate (me pare 'a luna chiena 'int'a l'estate/ quanno sponta, redenno,a primma sera.).
L’immortale successo della pizza. La pizza oggi è diventata un alimento ineliminabile dalla tavola mediterranea, ma anche europea e mondiale. Un po’ esagerando e scherzando, si potrebbe dire che le civilta passano e la pizza -novella Sfinge o Araba fenice- resta immortale. L'aggettivo "immortale" sembra sproporzionato? Non si direbbe. Ci hanno provato un po' tutti a distruggere la pizza. Ci ha provato il dialetto romano usando il termine "pizza" per indicare qualcosa di noioso. Ci ha provato anche uno scrittore "crumiro": il napoletano Gaetano Valeriani, che nel 1847 nel racconto Porta Capuana ha riunito nelle sue pagine (ma come avrà mai fatto?) tutto quel che si poteva dir di male della pizza. Ci ha provato la società dello spettacolo, coniando l'espressione pizza connection. Ma la pizza resiste. E come! Il nostro auspicio, allora, è che fra tremila anni ci sia ancora chi celebri i fasti della pizza.
*Docente di Linguaggio giornalistico all’Università di Salerno
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