Come comunicare correttamente col bambino cefalalgico
Dal martello pneumatico alla stretta di wrestling
di Maria Esposito*
La diagnosi di cefalea, si sa, affonda ogni sua definizione nella raccolta anamnestica. Infatti ciò che il paziente racconta rappresenta il solo e unico mezzo riconosciuto per la diagnosi, soprattutto se ci si riferisce alle cefalee primarie. Se questo aspetto risulta per lo più di facile accesso nella diagnosi di cefalea del paziente adulto, purtroppo lo stesso non può dirsi in età evolutiva.
Quando la cefalea esordisce in questo periodo della vita, infatti, può risultarne difficile l’esplorazione in relazione non solo all’età quanto alle caratteristiche stesse del dolore.
È noto che le competenze comunicative crescono con l’avanzare degli anni del bambino, ragion per cui una cefalea esordita in età precoce sarà difficilmente diagnosticabile sulla base del racconto del piccolo paziente e sarà necessario l’intervento del genitore che attraverso le descrizioni delle variazioni comportamentali del piccolo potrà porre il clinico nelle condizioni di poter riconoscere segni indiretti suggestivi di una cefalea primaria, di tipo emicranico o tensivo o, con qualche difficoltà in più, gli eventuali segni di una cefalea secondaria.
Tuttavia, è importante non tralasciare il fatto che lo stesso bambino molto piccolo è perfettamente in grado di comunicare col medico, anche se spesso in maniera peculiare e variabile da soggetto a soggetto. Questo tipo di comunicazione, però, risulta proficua solo quando il medico prova a immedesimarsi nel punto di vista del piccolo cefalalgico. Pensiamo ad un bambino di 4 anni che all’improvviso si ritrova in preda ad un attacco di tipo emicranico; costui non può che rimanerne terrorizzato dall’evento inatteso e mette in atto l’unica strategia che conosce per affrontare la paura: piange e si dispera, non sa cosa gli stia accadendo e di certo da solo non riesce a trovare le parole. A questo punto, se il suo dottore anziché chiedergli vagamente “cosa avverti?” prova anzitutto a rassicurarlo e successivamente a fargli domande più mirate tipo “nella testa senti una cosa che fa bum bum? O è come se qualcuno ti premesse forte sulla testa?”, beh in tal caso il medico “illuminato” avrebbe molte possibilità di ricevere una risposta chiarificatrice, soprattutto se si trova davanti ad un bambino che ha un attacco di tipo emicranico.
La faccenda diventa sicuramente più semplice col passare dell’età: a 6 anni un bambino emicranico è quasi perfettamente in grado di descrivere i suoi sintomi, se messo a suo agio e sempre dopo le necessarie rassicurazioni; a 9 anni non fa in tempo ad entrare in ambulatorio che, proprio come un adulto, avrà descritto nei minimi dettagli il suo dolore.
La stessa cosa, purtroppo, non si può dire per i bambini con cefalea di tipo tensivo: questo tipo di mal di testa, per le sue peculiari caratteristiche, è di certo più difficilmente descrivibile dai bambini ed altresì meno considerato dai genitori; accade infatti molto spesso che essi tendano a sottovalutarne la sintomatologia, proprio perché non associata alle più eclatanti variazioni comportamentali che si verificano nell’emicrania. Anche in questo caso allora bisognerà richiamarsi al buon senso, ricorrerendo talvolta alle onomatopee, talaltra ad esempi più o meno calzanti: ad un ragazzino di 9 anni potremmo provare a chiedere “hai la sensazione di avere come un martello pneumatico che ti batte nella testa?” e, di contro, sentirci rispondere “no, è proprio come si può sentire il lottatore di wrestling quando gli fanno quella mossa che si stringe la testa!”. Beh, in tal caso ci potremo orientare verso un dolore di tipo tensivo.
Al di là dell’aspetto puramente diagnostico, la possibilità di instaurare una corretta comunicazione col piccolo paziente cefalalgico risulta fondamentale soprattutto per la presa in carico e la gestione terapeutica dello stesso. Non bisogna, infatti, dimenticare che il piccolo cefalalgico è un bambino che troppo precocemente ha sperimentato il dolore, e altrettanto precocemente avrà instaurato una serie di meccanismi di difesa e di evitamento che potrebbero aver compromesso le sue abilità comunicative e sociali. Pertanto è di fondamentale importanza la presa in carico globale e l’interazione diretta col bambino, nel tentativo di spingerlo ad affidarsi al medico. Quest’ultimo, dal canto suo, dovrà mostrare comprensione e capacità di ascolto nei confronti di un piccolo paziente che nella maggior parte dei casi è solito ricevere soprattutto sguardi diffidenti da parte di adulti che tendono a sottovalutare l’entità del suo dolore o che pensano che quella sia semplicemente la scappatoia più breve per evitare di andare a scuola…
(*) Specialista in Neuropsichiatria Infantile
e dottoranda in Scienze del comportamento e processi di apprendimento