Atti del Congresso


ASPETTI PSICODINAMICI DELL'ELABORAZIONE
E DELLA CRONICIZZAZIONE DEL DOLORE

PSYCHODYNAMIC ASPECTS OF PAIN PROCESSING AND CHRONICIZATION

Alfonso Leo, Centro Cefalee Azienda Ospedaliera San Giuseppe Moscati, Avellino
Istituto Freudiano per la Clinica, la Terapia e la Scienza, Roma

alfonso.leo@tin.it

Parole Chiave: Dolore, Psicoanalisi, epigenetica , leggere il sintomo

Introduzione
Il dolore è parte della nostra esistenza ma a essa straniero, (ex-timo?), si deve coltivare, sedurre poi, con dolcezza e prudenza, condurre fuori, al di là delle porte della nostra esistenza, pregandolo di non tornare.
Come dice Annie Aubert [1] “parlare del dolore significa trattare di una questione che colpisce il corpo e addolora l’anima. Studiarlo, qualunque sia la forma privilegiata scelta, implica solidamente i tre poli nei quali può manifestarsi: somatico, psichico e morale. Questo è vero per la psicoanalisi anche se, ovviamente, il suo campo è la realtà psichica”.
Il dolore, come afferma il filosofo Aldo Natoli [2], qualunque sia la sua causa rompe il ritmo abituale dell’esistenza, produce discontinuità sufficiente per gettare nuova luce sulle cose ed essere insieme patimento e rivelazione.
A questo titolo il dolore è fatto personale, ma anche evento cosmico: questo intreccio di singolare e universale, mai del tutto districabile nell’esperienza del dolore, permette a questa esperienza di farsi linguaggio. Se nel dolore non si intrecciassero in maniera indissolubile, seppur enigmatica, l’individuale e il totale, mai esso giungerebbe alla parola: la sofferenza rimarrebbe l’esperienza muta che è.
Freud nella sua originale posizione affermò: “Nel giudicare dolori che si annoverano tra i fenomeni somatici, bisogna in genere prendere in considerazione la loro dipendenza oltremodo evidente da condizioni psichiche” [3]. I dolori attribuiti a cause non somatiche sono in genere considerati di poco conto e, quindi, si tende a sottovalutarli; ma come afferma Freud: “è una palese ingiustizia; qualunque sia la causa dei dolori, sia pure l’immaginazione, i dolori stessi non sono per questo meno reali e violenti” [3]. Freud utilizzò, quindi, il dolore non più come segno di una patologia ma come una sorta di “bussola della mente”.
Come afferma il filosofo Natoli [2]: “La via del dolore consente all’uomo di costituirsi integralmente come individuo per la semplice ragione che nessuno è sostituibile nel proprio dolore così come non lo è nella propria morte e (...) in quanto esperienza inevitabile è per questo esperienza radicale”. E’ quindi un’esperienza in grado di segnare in modo indelebile il soggetto e di permettergli di costituirsi, di crearsi un’identità, cosa che accade in diversi modi: si può ricorrere all’identificazione col gruppo “io sono cefalalgico” o cercare dall’esperienza dolorosa la via per la psicoanalisi.

Psicoanalisi e dolore
Il dolore condiziona l’ingresso nella cura e la psicoanalisi accetta “malvolentieri di vedersi assimilata ad un riconoscimento del dolore” [4], tuttavia dal dolore non può prescindere, anzi può rappresentare una risorsa poiché permette al soggetto di avvicinarsi al nocciolo della propria sofferenza.
In psicoanalisi il soggetto si presenta come individuo, come Uno, non abbiamo a che fare con l’universale della medicina, dove tutto deve essere incasellato, classificato, la vita si presenta come corpo individuale, il “corpo Vivente” ma “la vita non si riduce al corpo, alla sua bella unità evidente. C’è un’evidenza del corpo individuale, del corpo in quanto Uno, ed è un’evidenza di ordine immaginaria” [5] come afferma J. A. Miller,  ma questo non significa che il corpo con i suoi organi sia assemblato di tanti elementi naturali, ma l’individualità è qualcosa di differente, “si afferra l’Uno a partire dal significante e non a partire dalla natura” [5]. Ma cosa fa lo psicoanalista al contrario della medicina tradizionale? “Lo psicoanalista è molto più furbo, al contrario egli invita a dire ciò che vuole, a far come si vuole, nel tempo dato, o sottratto e, alla fine, si suppone, il soggetto sputa il suo S1, la lisca di pesce. Il soggetto stesso si dà una pacca sulla schiena ed ecco l’osso: una volta l’ho chiamato, del resto Lacan stesso chiama l’oggetto a, l’osbjet, l’o(sso)ggetto”[6].

Come agisce la psicoanalisi?
In cosa l’azione della parola lenisce il dolore? Si è visto che il placebo è efficace nel lenire il dolore attraverso modifiche biochimiche del cervello [7], è ovvio che questo avviene anche nella psicoanalisi, ma la non riproducibilità del trattamento non permette di poterlo dimostrare secondo i criteri della EBM.
Di sicuro si sa che l’ambiente è in grado di modificare la configurazione biochimica del cervello e non solo! L’ambiente è in grado di determinare cambiamenti anche nell’espressione dei geni, è ormai dimostrata che la felice intuizione del premio Nobel E. Kandel[8] che già aveva parlato di una possibile integrazione tra biochimica e psicoterapia.
I successivi studi sull’epigenetica hanno proprio dimostrato quanto l’ambiente, le cure materne, siano in grado non di modificare il contenuto genetico [9], ma sicuramente l’espressione genica e quanto questo sia importante soprattutto se l’influenza avviene in età infantile [10]: insomma Freud non aveva torto a parlare tanto dell’importanza dei traumi infantili!
E’ stato dimostrato inoltre che tali caratteristiche sono in parte ereditabili, attraverso un meccanismo non genetico ma epigenetico!
Si aprono, insomma, enormi prospettive sia nella comprensione sia nell’elaborazione del sintomo dolore. Non a caso non ho parlato di psicoanalisi come terapia del dolore poiché come dice J. Lacan  “la psicoanalisi è semplicemente una terapia, una medicina, un impiastro, una polvere di perlimpinpin, qualcosa che fa guarire? Di primo acchito perché no? Soltanto che la psicoanalisi non è niente di tutto ciò” [11]; “l’analista (...) è l’ultimo arrivato” rispetto agli altri due impossibili freudiani governare e educare.“L’analisi è una funzione ancora più impossibile delle altre. Non so se siete al corrente, ma essa si occupa in modo particolare di ciò che non funziona. E quindi si occupa di quella cosa che dobbiamo pur chiamare col suo nome - devo dire che finora sono l’unico ad averla chiamata così - il reale. (...) E’ di questo che si occupano gli analisti, di modo che, contrariamente a quello che si pensa, sono molto più esposti al reale degli scienziati”[11].
Nelle neuroscienze il medico si pone nella posizione di quello che tutto sa, cerca di incarnare quello che Lacan definisce A, il grande Altro, il tesoro dei significanti, quello che contiene tutte le risposte, mentre invece l’analista, benché parta dalla posizione che Lacan definisce di soggetto-supposto-sapere, deve uscire da questo ruolo ed occupare quella posizione che Lacan definisce con l’espressione di S. Tommaso “sicut palea”, la posizione di “disessere” [12] al fine di diventare quell’A barrato, che si caratterizza proprio per il suo non sapere.
L’organizzazione della nostra sanità non punta al benessere del paziente ma alla sua rapida ripresa in senso produttivo, si parla tanto, in tema di emicrania, dell’alto costo sociale della patologia, ma non in termini di sofferenza individuale, ma in termini di giornate di lavoro perse!
Ancora Lacan ci viene in aiuto: “Che cosa potrà opporre il medico agli imperativi che farebbero di lui l’impiegato di questa impresa universale della produttività? Egli ha solo lo spazio del rapporto attraverso il quale egli è medico, cioè la domanda del malato. E’ all’interno di questo rapporto stretto, dove si producono tante cose, che si trova la rivelazione di questa dimensione nel suo valore originario, che non ha niente di idealistico ma che è esattamente ciò che ho detto: il rapporto col godimento del corpo” [13] .
E allora come applicare tutto ciò alla pratica quotidiana? Lacan ci ha segnalato che il desiderio di guarire il paziente non ci può condurre che all’errore, egli definisce il desiderio dell’analista come il “non desiderio di guarire” [14] da non confondere con il desiderio di non guarire, in quanto la psicoanalisi non punta direttamente all’effetto terapeutico come già detto prima.
Tutto questo può avvenire a patto che il medico impari, come dice J. A. Miller, a leggere il sintomo dolore. Egli afferma che “la psicoanalisi non è solo una questione di ascoltare ma anche di leggere”[15].

Conclusioni
Lacan ha affermato che il sintomo è un eccetera, nel senso che si riproduce in tante forme diverse, come un frattale che rimanda la stessa luce in mille modi diversi -  cioè lo stesso oggetto è ripetuto in mille maniere diverse -, e noi sappiamo bene nella nostra pratica quotidiana quante volte il sintomo dolore si ripete in mille forme diverse nello stesso soggetto!
Sta a noi saper leggere, attraverso l’interpretazione, il sintomo alla sua formula elementare d’incontro materiale di un significante col corpo, “allora, certamente per trattare il sintomo si fa bene a passare per la dialettica in movimento del desiderio, ma lo si fa dipendere dalle illusioni della verità che questa decifrazione può apportare e guardare, al di là della fissità del godimento, all’opacità del reale” [15].
Ed è proprio da queste premesse che è possibile ipotizzare che esista un approccio possibile al dolore cronico non solo come entità nosologica medica ma come vissuto individuale.


Bibliografia

  1. Aubert, Il dolore, Borla 1999 pp.19-20
  2. S. Natoli, L’esperienza del dolore, Feltrinelli 1986
  3. S. Freud, Trattamento psichico(trattamento dell’anima), 1890 in opere di sigmund freud Boringhieri vol. I
  4. J. B. Pontalistra, Il sogno e il dolore, Borla 1988
  5. J. A. Miller, Le lezioni sul sinthomo La Psicoanalisi, 2007, 41: 22-30.
  6. J. A. Miller, Pezzi Staccati-Introduzione al Seminario XXIII “Il sinthomo”, Astrolabio 2006.
  7. F. Benedetti e coll., How PlacebosChange the Patient's BrainNeuropsychopharmacology. 2011 January;
    36 (1): 339–354.
  8. E. R. Kandel e coll., Toward a Neurobiology of Psychotherapy: Basic Science and Clinical Applications The Journal of Neuropsychiatry and ClinicalNeurosciences 2005; 17:145–158
  9. P. C. W. Davies, The epigenome and top-down causation Interface Focus. 2012 February 6; 2(1): 42–48.
  10. G. Kosztolányi, Hypothesis: epigenetic effects will require a review of the genetics of child development Community Genet. 2011 June; 2(2): 91–96.
  11. J. Lacan, Mon Enseignement Seuil, 2005.
  12. Lacan J., Il Seminario libro VII- L’etica della psicoanalisi, 1959-1960 Einaudi 1994.
  13. J. Lacan, Psicoanalisi e medicina. La Psicoanalisi, 2002, 32: 9-20.
  14. X. Esquè, Le désir de l’analyste et la psychanalyse appliquée à la thérapeutique Mental, 16 : 27-33 2005
  15. J. A. Miller, Lire un symptôme Mental, 26 49-58