ASPETTI PSICOPATOLOGICI PER UNA CLINICA DEL DOLORE
FEATURES ABOUT PSYCHOPATHOLOGY OF PAIN
Giulio Corrivetti, Responsabile DSM ASL Salerno, ambito centro
corrivetti@gmail.com
“La coscienza non è un oggetto ma un processo”
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“Anche se parliamo spesso del cervello come se avesse una funzione,in realtà non ne ha: è una raccolta di sistemi, detti a volte moduli, che ne hanno ognuno una diversa. La somma di tali funzioni è la funzione del cervello. |
Premessa
“Il dolore si conosce per esperienza” così lo definisce Salvatore Natoli in una sua ricerca sull’ “esperienza del dolore” che è anche il titolo di un testo di grande interesse per le scienze umane e per quelle naturali (1). Non può accadere che noi ri-conosciamo il dolore se non all’interno della sola esperienza dello stesso. Il dolore ha valenze sociali e ricopre una funzione culturale. Ciò che al di là di ogni possibile definizione appare chiaro oggi, è che il dolore è la sintesi mentale e la risonanza comportamentale di interazioni reciproche tra le funzioni neurali e psichiche. Numerose condizioni modifica la percezione e la valutazione soggettiva del dolore. Nello sviluppo dell’apparato psichico, se si forma nella mente una particolare esperienza di dolore essa ne condiziona la sua dimensione soggettiva, diventando termine di paragone per ogni evento che, nel futuro, possa implicare, rievocandola, quella esperienza dolorosa. L’esperienza del dolore si elabora, così, fisicamente per apprendimento.
Prima di una fenomenologia del dolore quindi deve esserci una esperienza del dolore e non è possibile descrivere la prima senza averlo incontrato e conosciuto. Esso fa parte della vita e non la nega e non la estingue. Esso può essere vissuto poiché, la sofferenza è un momento della vita.
Quando noi ci rapportiamo alla persona che soffre, l'unico modo per poter dare un senso non è compatirla, ma liberare in lei la vita. Quindi più che, sun-patere, “vivere con”, appare necessario costruire con la persona che soffre un sun-telos, un fine, un orizzonte comune. Questo orizzonte non è la pietas, ma quel sentimento comune determinato dall’importanza che l’altro riveste per noi e che ci motiva a cercare, insieme, un percorso teso al superamento della sofferenza e ad alleviarne il dolore.
Il senso della sofferenza allude alla domanda sul senso della vita. Tanto i filosofi che coloro che gestiscono la domanda di salute sanno che è l’esperienza del negativo a promuovere la ricerca. E’ la malattia, il dolore, l’angoscia a sviluppare un bisogno di conoscenza che non è mai promosso dalla felicità. La pratica filosofica - ultima in ordine di tempo, tra le pratiche di cura (counseling filosofico) - ritiene che dal dolore non si possa guarire perché pensa che il dolore non è un inconveniente che capita all’esistenza quale effetto di una causa, ma ritiene che il dolore non sia separabile dall’esistenza, quindi non suscettibile di guarigione, ma governabile con la sua cura.
Dal punto di vista strettamente fisiologico, ad esempio, lo stress acuto innalza la soglia di tolleranza al dolore producendo analgesia, mentre in una condizione cronica di stress, un dolore inizialmente insopportabile può cronicizzare attraverso un meccanismo esattamente opposto.
Le conoscenze, oggi, hanno dimostrato che allo stimolo nocicettivo viene assegnato un significato più complesso della risposta semplice, che la persona interpreta il dolore all’interno di un processo cognitivo e che eventi mentali modificano la soglia al dolore perché influiscono sulla componente cognitiva ed emotiva del dolore
Pertanto, in una breve introduzione alle dimensioni implicate nella psicologia ed in una psicopatologia del dolore, antefatto di ogni riflessione di merito e di metodo, si pone la differenza che deve essere declinata tra dolore e sofferenza. Va, cioè, distinto il senso del dolore da quello della sofferenza. E solo così, è possibile donare senso alla sofferenza categoriale della psicosi, come a quella depressiva e comprendere i modi ed i volti della sofferenza malinconica. Quella sofferenza intesa quale esperienza categoriale e come matrice esistenziale in tutte le sue diverse forme. Se quella sofferenza nasce nel cuore e nell’anima, solo “dopo può trascinare con sé risonanze e riverberazioni somatiche” (Borgna).
Il dolore confina nella solitudine
Al dolore appartengono le categorie dell’universalità. E’ possibile riconoscerlo solo quando lo si incontra. E nonostante la sua comune presenza non ridimensiona mai il carico e la pena di chi lo soffre.
Quando il dolore lacera il pensiero, un alone incomprensibile prorompe drammaticamente nella vita ed interrompe il rapporto Io-Mondo, confinando la persona che soffre nella sua solitudine. Ogni persona si riconosce quando scopre se stessa nel rapporto tra l’Io ed il mondo e si definisce nella relazione con gli altri in quando rappresentazione negli altri.
L’adulto cerca nelle parole un percorso di senso teso a ristabilire un contatto ed interpretare il significato di quanto accade. Un bambino è relegato ed isolato dall’impossibilità di razionalizzare quanto gli accade; non riesce a rielaborarlo in una prospettiva di cultura né tantomeno di trascendimento di sé. La sofferenza, in ogni modalità, tende a separare l’uomo dal mondo (dal mondo delle cose edal mondo delle altre persone), isolandolo ed interferendo in maniera significativa con l’intersoggettività. Ogni condizione di sofferenza si accompagna al distacco dalle cose ed alla costituzione di una solitudine. Solitudine che non è isolamento, anche se spesso queste due condizioni sono collegate da rapporti osmotici. Ci sono sofferenze che creano isolamento, quale distacco radicale della intersoggettività, e sofferenze che vengono focalizzate nella solitudine. Il tema della sofferenza si declina con quello della solitudine e dell’isolamento.
L’ esperienza del dolore nel tempo e nelle culture
La dimensione della sofferenza umana ha le caratteristiche della universalità. Un trauma, una colica saranno oggi identici alle analoghe manifestazioni patite dagli egiziani o dai romani nelle loro epoche, mentre Il significato e l’attesa della sofferenza oggi è molto diversa in quanto essa, sofferenza, è proiettata in una aspettativa consapevole di guarigione. Il dolore, pertanto, è vissuto oggi in un contesto culturale che oggettivamente non fa più riferimento alla trascendenza. E’ la tecnica che evoca questa attesa, trova risposte, facilita le conoscenze e dona impulso alla consapevolezza collettiva.
Ecco, l'esperienza del dolore, quindi si articola perlomeno su due livelli: il primo concreto e reale è rappresentato dalla malattia dalle sue limitazioni e dai danni conseguenti che sono, in quanto legati alla natura, certamente identici oggi come nel passato. Il secondo livello è legato alle variabili culturali, quindi muta nel tempo e nei contesti (culture cristiane, culture orientali, culture laiche, etc.)
L’esperienza del dolore, quindi si declina nella reciprocità tra l’immanenza della malattia e la interpretazione o la donazione di senso della cultura che la interpreta. Il dolore appare, in questo modo, nella sua universalità e contemporaneamente nella sua diversità.
Esso, cioè, è contestualmente, per dirla con Natoli, una “esperienza individuale che si patisce e si interpreta” contemporaneamente.
La cultura orientale dice che il dolore in cui si esprime la caducità dell’esistenza è solo apparenza e che bisogna rinunciare alla volontà di governare il dolore così come per la pretesa di dominare tutte le cose.
La nostra cultura è persuasa che la caducità è una realtà da cui il dolore scaturisce come una sua conseguenza ed è stata condizionata da due grandi visioni culturali: quella giudaico-cristiana e quella greca.
Nella visione giudaico-cristiana il dolore è conseguenza di una caduta e di una colpa. Il dolore è il castigo ma è anche un evento da cui si può guarire. Questa interpretazione religiosa del dolore porta pure, però, alla concezione che esso è un inconveniente da cui si può guarire. La vera vita è ultraterrena dove è assenza di dolore. La visione psicoanalitica è completamente inscritta in questa tradizione giudaico-cristiana secondo cui il dolore non è un costitutivo inscindibile dell’esistenza ma qualcosa di separato da cui si può e si deve guarire.
Nella visione dei greci il dolore non è una conseguenza della colpa originaria ma è il costitutivo dell’esistenza che bisogna accogliere senza speranze ultraterrene e quindi bisogna imparare a vivere in pieno la vita ad immagine e somiglianza degli dei dell’olimpo che erano alla ricerca del piacere e della realizzazione. Essi hanno avuto il coraggio di guardare in faccia il dolore senza lenirlo con speranze ultraterrene. La medicina ippocratica insegna all’uomo quale soggetto di dolore che il sollievo non viene dall’affidarsi a cieche speranze, ma dal percorrere le vie della conoscenza che quelle sofferenze può alleviare. La cultura greca elabora risposte attive che traducono la precarietà dell’esistenza in impresa conoscitiva.
L’aretè greca, come la virtus latina è la capacità di eccellere, di essere migliore proprio attraverso questa lotta per la conoscenza. Essa dona la capacità di dominare il caso, il fato, il destino. Quindi il dolore non è visualizzato nella modalità di espiazione della colpa, ma nell’ineluttabilità di una regola di natura da cui nascono due forme di resistenza al dolore: il sapere che consente di evitare il male e la virtù che consente di dominare il dolore. L’uomo non può diventare immortale come il Dio dell’Olimpo, ma con quel modello deve restare in tensione per generare virtù e conoscenza.
Il dolore giunge, non scelto e stressa il limite di tolleranza del singolo, con una ineluttabilità che è comune a tutte le culture ed in tutti i tempi. L’adulto può immaginare e credere in una lotta che lo strappa alla sua solitudine e che gli permette di credere che egli non è solo in quell’universo di ineluttabilità, ma che viene accompagnato verso la guarigione.
Ed oggi i confini della speranza sono mossi e sollecitati dalla tecnica che traccia le traiettorie della conoscenza e della consapevolezza sia per chi soffre che per chi cura. E’ la tecnica che oggi evoca i nuovi scenari dell’esistenza umana così che la natura crudele può corrispondere maggiormente all’attesa di felicità dei viventi.
Al cospetto di quella crudeltà naturale, grazie alla tecnica, le persone possono sentirsi uniti per aiutarsi e continuare a sperare.
Il dolore sintomo ed il dolore malattia
Il dolore fisico sappiamo che svolge una funzione utilissima nella misura in cui rappresenta un campanello d’allarme essenziale a preservare e monitorare l’andamento della malattia sottostante. Classicamente esso è un sintomo ed anche un segnale di allarme. Oggi, con lo sviluppo della tecnica, noi siamo arrivati al punto che il dolore ha cessato di essere solo sintomo. Infatti si può già sostenere che assume la sostanza di una malattia. Così, nell’era della tecnica, è l’antropologia che subisce un radicale mutamento e l’uomo appare orientato ad una ricostruzione del senso di sé e di quello del suo rapporto con la natura. L’aspettativa di vita si è, infatti, allungata. Molte malattie hanno assunto una connotazione cronica ed accompagnano nel tempo la persona malata senza rappresentare più un pericolo di vita. Pertanto non è sempre necessario o necessariamente utile guarire la malattia sottostante per alleviare il dolore, così come l’esperienza ci sta insegnando. Oggi, perciò, il dolore assume il rango di malattia al punto che la sua cura reclama di essere affrontata con diverse categorie logiche e psicologiche.
Pertanto, sul piano fisiologico il dolore è la risultante di un’associazione mentale, affettiva e cognitiva, mentre sul piano patologico diventa una malattia se lo si lascia divenire cronico, determinando in molti casi una condizione anche più grave dell’affezione, che lo ha provocato.
Il dolore normale, il dolore acuto, ci avverte di una ferita o di una malattia, inviando al cervello un segnale localizzatorio. A volte, oltre al danno dei tessuti può verificarsi anche un danno delle terminazioni nervose del sistema del dolore, inducendo e determinando quel fenomeno definito “dolore neuropatico” per il quale non sussiste o non sussiste più la causa tessutale. Anche le mappe cerebrali danneggiate inviano, così, falsi allarmi alla periferia, ingannando il sistema localizzatorio che percepisce il danno in periferia, mentre il sintomo origina a livello centrale. In tal modo, anche dopo che il tessuto è guarito il dolore è ancora attivo ed in tali condizioni lo definiamo una malattia a sé (2).
Il dolore fisico ed il dolore morale
Ancor più che per la malattia, il dolore non può essere scisso oggettivamente in sofferenza del corpo e sofferenza della mente, in quanto il primo implica il secondo e viceversa. Anche una mente che soffre coinvolge e trascina il corpo che la rappresenta nella declinazione del proprio dolore, del proprio disagio, trasformandosi ed ammalandosi a sua volta. La mente, l’Io si raffigurano nella propria corporeità ed il dolore morale strazia il corpo e lo deforma allo stesso modo in cui il dolore fisico invade la mente che solo talvolta ne riesce a mitigare l’intensità, ad ovattare od ottundere il riverbero, a donare i significati utili all’assimilazione ed al ripristino di un’attesa di felicità. Il dolore della mente è sempre più enigmatico e oscuro di quello fisico e la sofferenza buia precipita l’uomo nella solitudine e nella demoralizzazione. Questa perdita della speranza strazia il corpo e diviene così dolore del corpo. Se pur l’origine è incerta, la reciprocità di questo doppio legame è evidente e costante.
L’approccio psicoanalitico ha descritto diverse ipotesi per interpretare e spiegare come e quanto le componenti emozionali interferissero con la percezione soggettiva del dolore.
Freud considerava il dolore come una forma di autopunizione che l’individuo mette in atto autonomamente per compensare il sentimento di colpa. Il sentimento di colpa sopraggiungerebbe quando la persona è combattuta tra i suoi istinti aggressivi e la necessità di controllare o inibire quegli istinti stessi. In altri casi il senso di colpa sopraggiungerebbe quando all’istinto aggressivo (agito o non agito) consegue un pentimento o un sentimento di estraneità per quell’istinto stesso. Il dolore cronico rappresenterebbe quindi una modalità accettabile per convivere con la propria aggressività e per non sentirsi costantemente in colpa per essa. Ovviamente tutti questi processi intrapsichici vengono messi in atto dalla mente inconsciamente.
Una seconda ipotesi freudiana analizza il dolore che si prova nelle situazioni di lutto. In quel caso il dolore è inteso come dolore morale. In base alle teorie freudiane, quel dolore rappresenta un processo fisiologico, quindi una reazione sana a situazioni o esperienze improvvise e violente, come la morte di una persona cara.
In relazione anche alle teorie degli psicoanalisti successivi a Freud possiamo riassumere schematicamente tre ipotesi per la spiegazione dei meccanismi psichici correlati al dolore, alla sua percezione ed alla sua formazione:
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il primo modello fa riferimento al tentativo di Freud di spiegare tutti i sintomi fisici dell’ansia all’interno della sua teoria della libido e dei conflitti inconsci ad essa collegati. In tale teoria si sostiene che sono le esperienze della prima infanzia, cioè le prime tappe di evoluzione dell’apparato psichico, a caratterizzare ed eventualmente a fissare i processi della mente su alcune parti specifiche del corpo. Queste parti, così, assumerebbero un valore simbolico che, in futuro, in epoche della vita più adulta, in circostanze di stress o di tensione o di perdita dell’equilibrio, diventerebbero organi bersaglio dei sintomi ansiosi determinando sintomi e/o malattie somatiche, proprio a partenza da quegli stessi organi o apparati. Il dolore in una zona del corpo, così, rappresenta il sintomo di quell’organo bersaglio.
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una seconda ipotesi, derivabile dalle teorie sulla componente narcisistica dell’individuo, tende a spiegare i comportamenti e le abitudini di persone cronicamente afflitte da dolore. Sia quando questo è appannaggio di un organo specifico, sia quando questo è fluttuante ed aspecifico di molti apparati del corpo. In particolare, queste persone, a causa del loro dolore costruiscono un ritiro dalle responsabilità e dagli interessi. In sostanza un ritiro dal mondo. Tale ritiro ha un significato regressivo ed è determinato dalla frustrazione delle istanze narcisistiche dell’Io di quella persona: quando alcuni desideri proibiti o inaccettabili vengono frustrati ovvero quando pulsioni aggressive dell’Io narcisistico vengono inibite determinando un conflitto irrisolto all’interno dello stesso individuo, la mente mette in atto meccanismi di difesa psicosomatici per attutire il ruolo che questi conflitti avrebbero sull’equilibrio dell’Io. In questo caso, il dolore cronico diviene un mezzo attraverso cui, inconsciamente, l’individuo riesce a non esporsi più a situazioni frustranti o intollerabili per non subire più la ferita al proprio narcisismo.
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una terza ipotesi rientra sempre all’interno del significato che la componente narcisistica assume nella spiegazione di molti eventi umani. In questo caso, però si ritiene di dare particolare valore al ruolo dei sensi di colpa e delle ansie determinate dalla frustrazione, dai conflitti e dall’ostilità soggettive verso questi conflitti stessi. Il sentimento di colpa viene placato attraverso l’esperienza soggettiva del dolore. La sofferenza fisica svolge così una azione di compenso nei confronti del conflitto soggettivo.
Dolore evitabile e dolore inevitabile
Esiste un dolore che l’uomo infligge a se stesso. In tali circostanze la crudeltà appare gratuita ed il significato oscuro. E’ vero che la natura appare crudele quando distrugge impietosamente ciò che ha creato, ma in questa immanente circolarità si scorge un senso ed un disegno proprio in quanto essa non distrugge mai, inspiegabilmente, se stessa. La natura così appare innocente oltre che crudele perchè si evidenzia lo scopo innocente della sua naturale autoconservazione.
Il dolore per la perdita di una persona cara ci schiaccia di fronte al non senso di una vita spezzata. Quel dolore è atroce, inevitabile, ma comprensibile perché il disegno del destino o della natura spiega ed allevia.
Esiste un dolore incomprensibile e non innocente: quello che gli uomini infliggono a se stessi attraverso la fame, le guerre. Così mentre la natura è contemporaneamente crudele ed innocente, l’uomo appare, in tali circostanze crudele e “non-innocente”. Crudele e basta.
La parola tecnica e le parole della tecnica moderna
La sofferenza, nella sua fondazione antropologica, nelle sue radici esistenziali e spirituali, anche nel contesto di un discorso psicopatologico e fenomenologico, ha un carattere irriducibile. Afferma Simone Weil al proposito: “il carattere irriducibile della sofferenza, così che non se ne può avere orrore nel momento in cui si subisce, ha come esito finale quello d’arrestare la volontà , come l’assurdità arresta l’intelligenza, come l’assenza, la non esistenza arresta l’amore. Affinchè, giunto al limite delle facoltà umane, l’uomo tenda le braccia, s’arresti, fissi lo sguardo e attenda) (Weil S.)
L’antropologia contemporanea è dominata dall’immanenza della tecnica e gran parte delle categorie psicologiche e culturali che un tempo sopperivano le strategie di controllo del dolore hanno perso oggi il loro potere evocativo e risolutivo. Se un tempo la parola, la preghiera, l’ascesi potevano essere di supporto all’esperienza e traghettarla in un altrove diverso, oggi la parola di chi soffre invoca un aiuto che non può essere costruito solo su altre parole. Nell’epoca della tecnica e dell’informazione sono ancora più indispensabili una relazione, un incontro efficace e risolutivo ed uno scambio empatico fondato sulla reale possibilità di soccorso e di catarsi del dolore stesso.
Si diceva prima che oggi la tecnica ha creato un orizzonte di esperienze nuovo attraente e contemporaneamente inquietante. Ad esempio molte malattie acute e gravi sono diventate compatibili con tempi anche lunghissimi di vita. In questo caso è la tecnica che ha posto l’uomo nella prospettiva di una sofferenza lunga ed inesorabile. In tal caso la tecnica non ha assolto a tutta la sua missione, creando forme nuove di sofferenza ed in questo caso, ancora di più ad essa deve essere rimandata la missione di alleviare il dolore creato. A tali nuove circostanze la sola tecnica non può rispondere a pieno. Servono linguaggi nuovi e formule nuove di rappresentazione, di inclusione e di riconoscimento dell’altrui sofferenza nei ritmi quotidiani dei viventi.
L’età della tecnica, de-individuando i soggetti di cui mortifica la specificità offre sempre meno strumenti per reperire un senso all’esperienza del dolore.
Cognizione e dolore
Il dolore è un’esperienza spiacevole, complessa e multidimensionale, risultato dell’interazione di fattori sensoriali, emotivi, motivazionali e sociali integrati a livello cognitivo. L’esperienza individuale che ne consegue dipende soprattutto da come il soggetto costruisce e interpreta gli eventi provenienti dall’ambiente esterno o dalla dimensione interna. Il dolore come sofferenza psichica implica stati emotivi, ansie, paure e ricordi di esperienze pregresse, che possono riflettersi negativamente sul piano somatico.
La capacità di valutare il grado di spiacevolezza della sensazione dolorosa, cioè di confrontarlo con altri tipi di dolore provati in precedenza, o quella di attendersi un certo tipo di dolore per un certo stimolo, o addirittura di prevedere come sopporteremo o reagiremo a un certo tipo di stimolo costituiscono la componente cognitiva del dolore. Non solo: noi soffriamo di più o di meno, a parità di lesione, in base alla valutazione che diamo dell’importanza della lesione stessa per il nostro benessere futuro (probabilità di deficit permanenti, presenza di sangue, conseguenze estetiche della lesione). Nella valutazione del dolore influiscono anche fattori sociali, familiari, etnici, culturali e, soprattutto, le circostanze collegate allo stimolo.
Il dolore è in grado di riprodurre una serie di reazioni psicologiche che si esprimono sotto forma di fenomeni di attivazione biologica, di vissuti soggettivi e di reazioni comportamentali. Tali reazioni sono del tutto comprensibili se si tiene conto delle modificazioni che le emozioni provocano sia a livello somatico che a carico del sistema vegetativo, endocrino ed immunitario, oltre che delle modalità differenti con cui le persone esprimono le emozioni, in uno spettro che va dall’esplosione del comportamento alla somatizzazione.
Allo stimolo scatenante, la nocicezione, seguono reazioni riflesse e corticali che vengono identificate dal soggetto come dolore. Allo stimolo nocicettivo viene assegnato un significato molto più complesso della semplice risposta. In sostanza è possibile sostenere che la persona interpreta lo stimolo nel contesto di un processo cognitivo. In questo processo giocano un ruolo determinante sia l’esperienza precedente (apprendimento iniziale) sia l’anticipazione delle conseguenze. Inoltre tale processo attiva anche reazioni emotive e fisiche che possono definire il quadro più complesso della sofferenza.
Il coping rappresenta la modalità comportamentale con la quale un individuo affronta la vita o i problemi e le loro conseguenze sul piano emozionale, Allo stesso modo si elaborano eventi quali la malattia e fenomeni come il dolore cronico.
Il coping rappresenta la modalità di adattamento propria di ciascun individuo di fronte ad un evento negativo stressante, in quanto ogni persona presenta uno specifico stile di coping. Nel rapporto con il dolore lo stile di coping del paziente è un parametro di grande rilevanza per le sue modalità di reazione psicologica e di adattamento sulle possibili complicanze psicopatologiche e sullla qualità della vita.
In un interessante lavoro Ramachandran definiva il dolore sulla falsariga dell’immagine corporea, così, con lo stesso meccanismo, esso sarebbe prodotto dalla mente e proiettato nel corpo(3). Melzack e Wall, molti anni prima erano giunti ad una intuizione che ha fatto storia nel campo delle conoscenze sul fenomeno dolore: la “teoria del cancello” - gate control theory of pain. In tale modello, il sistema del dolore viene descritto come un sistema diffuso in tutto il midollo spinale e nel cervello, che controlla tutti i segnali dolorosi(4). Un sistema di controllo attivo, quindi e non un recettore passivo di stimoli. I segnali dolorosi attraversano alcuni cancelli ed il loro passaggio è determinato solo dalla valutazione della loro importanza in quel momento per l’equilibrio sistemico. Il cancello può bloccare anche totalmente il segnale attraverso il rilascio di endorfine. Più in seguito, Ramachandran estese tale teoria definendo il dolore come un complesso sistema controllato da un cervello plastico: “il dolore è una opinione sullo stato di salute dell’organismo piuttosto che una risposta puramente riflessa alla lesione”(5). Così, il dolore, come l’immagine corporea, è un costrutto del nostro cervello.
Neuroni specchio, empatia, dolore
Diceva Adam Smith nel 1759: “quando vediamo un colpo che sta per essere essestato, pronto a colpire la gamba o il braccio di un’altra persona nio istintivamente indietreggiamo e ritraiamo la nostra stessa gamba o il nostro stesso braccio e quando il colpo arriva in qualche modo lo sentiamo, ne soffriamo come la vittima (6). La scoperta dei neuroni specchio ha permesso di ampliare, anche sulla base delle conoscenze neuro scientifiche, ciò che era noto relativamente al ruolo dell’empatia nel campo delle relazioni umane e della formazione e sviluppo dello psichismo. Funzione centrale dei processi evolutivi umani. L’empatia svolge un ruolo centrale nel campo sociale delle nostre relazioni. Permette la condivisione di emozioni , esperienze, obiettivi, scopi sociali. Molte evidenze empiriche suggeriscono il collegamento tra i neuroni specchio e l’empatia. La sincronia, non verbale che si determina con chi ci sta di fronte o vicino ha anche una componente emozionale (7). Il tutto è determinato in forma pre-verbale e pre-razionale da una interazione ed una mimica motoria che svolge una funzione comunicativa. Ma non solo: tale mimica motoria, meccanismo alla base dell’apprendimento per imitazione, svolge anche una funzione percettiva. Il meccanismo del’imitazione dell’espressione dei volti di chi ci sta di fronte è mediato da una interazione motoria con l’espressione dell’altro, dall’attività dei muscoli facciali analoghi a quelli dell’altro, nella conformazione di un volto felice ovvero di un volto arrabbiato (8). L’attività dei muscoli della guancia o di quelli della fronte aumenta quando guardiamo una persona sorridere od una arrabbiata. Gia Merleau-Ponty, anticipando sul piano fenomenologico quanto mezzo secolo dopo avrebbero confermato gli scienziati dei neuroni specchio, affermava: “vivo nell’espressione facciale dell’altro, nel momento in cui lo sento viverre nella mia” (9).
Pertanto appare evidente che debbano esistere connessioni tra i sistemi neurali dell’imitazione (il sistema dei neuroni specchio) ed i sistemi neurali delle emozioni (il sistema limbico). Un’area del nostro cervello pare essere connessa tanto al sistema dei neuroni specchio che al sistema limbico, e questa è l’insula (10). Nel meccanismo neurale dell’empatia i neuroni specchio producono un’imitazione interna (una simulazione) dell’espressione facciale osservata. Attraverso l’insula inviano dei segnali al sistema limbico, che produce la sensazione dell’emozione osservata (11).
L’insula sembra essere preposta alla sensazione e il cingolo alla qualità avversiva del dolore. Perciò, quando le vie neurali che collegano l’insula al cingolo anteriore vengono interrotte, il soggetto sente il dolore, ma non lo esperisce come male: una sindrome paradossale denominata asimbolia del dolore. Ciò induce a chiedersi nel caso del masochista che trae piacere dal dolore o una persona affetta dalla malattia di Lesch-Nyhan, che gode a mutilarsi, a quale stadio del processo cerebrale le etichette dolore\ piacere vengono scambiate?
Un’altra area del nostro cervello (coinvolta nel disturbo depressivo ed in quello ossessivo-compulsivo) è la corteccia del cingolo, regione della neocorteccia strettamente connessa alla corteccia premotoria. Alla corteccia del cingolo sono associate numerose funzioni, tra le quali la risposta alla stimolazione dolorosa. Alcune ricerche hanno evidenziato che tale area risponde anche alla vista di punture di spillo quando questo viene applicato ad un’altra persona (12). Cellule che si comportano in modo simile a quelle dei neuroni specchio. In realtà, tipico dei neuroni specchio è attivasi per le azioni, attraverso un meccanismo di imitazione motoria, e non per il dolore. Ma, ipotesi dimostrata è che noi rispecchiamo le emozioni delle altre persone attraverso l’attivazione precoce dei neuroni specchio implicati nelle espressioni facciali (neuroni motori) i quali a loro volta attivano i centri delle emozioni. Secondo il modello dei neuroni specchio, il rispecchiamento delle emozioni è mediato da una simulazione motoria. La scoperta di Hutchison dei neuroni della corteccia cingolata attivi anche quando un altro prova dolore ha fatto supporre che possano esistere meccanismi di simulazione del dolore analoghi al comportamento motorio associato al dolore e che esulano dal meccanismo empatico di simulazione dell’espressione dolorosa del volto dell’altro. Noi sappiamo che le aree motorie si attivano quando tiriamo via la mano da una fonte di uno stimolo doloroso (una fonte di calore, ad esempio), ma quelle aree si attivano anche quando vediamo un altro compiere la stessa azione. Un meccanismo complessivo di simulazione totale sarebbe in grado di rispecchiare non solo il dolore, ma anche la reazione motoria della persona che ci sta di fronte. Infatti, il nostro cervello è in grado di produrre una simulazione totale che comprende anche la simulazione motoria delle esperienze dolorose provate da altre persone.
In realtà, nonostante il fatto che si consideri l’esperienza del dolore una esperienza assolutamente personale ed individualistica, il nostro cervello la considera e la tratta come una esperienza relazionale e condivisa con gli altri. Anche queste forme di risonanza con le esperienze dolorose dei nostri simili appaiono, dal punto di vista dell’evoluzione e dello sviluppo, dei meccanismi precoci di empatia. Il nostro cervello pare organizzato per rispecchiare l’esperienza altrui. Attraverso il meccanismo del rispecchiamento, la simulazione nel proprio cervello delle esperienze altrui noi comprendiamo a fondo quel che provano gli altri. Attraverso tali meccanismi empatici ed al rispecchiamento nella componente affettiva del dolore altrui noi entriamo in sintonia con il mondo e comprendiamo la dimensione umana. Quell’umano comprendere che ci rende unici ed evoluti.
Psicopatologia e definizioni del dolore
Esistono molte definizioni del “dolore”, ma, nonostante esse, nelle diverse epoche abbiano modificato il contenuto semantico sulla base dell’influsso teoretico dell’epoca e delle più aggiornate ipotesi scientifiche, nessuna è riuscita ad esprimere l’idea di “Dolore” quale sintesi mentale e comportamentale di interazioni reciproche tra le funzioni neurali e quelle psichiche.
Una definizione del dolore contenuta nel Webser’s Dictionary cita: “sensazione penosa dovuta ad uno stato di malattia o ad una lesione corporea o a disordini organici”. Merskey nel 1979, definiva il dolore quale “esperienza sensitiva ed emozionale sgradevole associata ad un danno tessutale attuale o potenziale o descritto in termini di danno”, introducendo il senso soggettivo dell’esperienza emozionale al fenomeno doloroso, ed alcuni anni dopo approfondiva tale concezione affermando che “il dolore è sempre soggettivo .. [ed] .. esperienze legate ad un danno vissuto su di sé o visto in altri consentono d’imparare dalla prima età ad applicarlo agli eventi della vita”. La prima definizione fu assunta quale definizione ufficiale della Associazione Internazionale per lo Studio del Dolore (IASP). Questa stessa associazione,alcuni anni dopo confermava l’assunto di base aggiungendo che il dolore “è sempre uno stato psicologico emozionale”, mentre “l’attività indotta nel nocicettore e nelle vie nervose ad esso collegate non è dolore”.
Patrick Wall, il fisiologo ideatore, assieme allo psicologo Melzack, della “gate theory” (1964), vent’anni dopo scriveva, che “… la natura dominante del dolore, con l’imperioso bisogno d’agire, si pone fuori dalle altre sensazioni”, facendosi portavoce della posizione eclettica degli studiosi che, senza staccare il dolore dalla fisicità delle sensazioni, non si nascondevano, che vi è racchiusa una componente cognitiva, che lo distingue dalle percezioni.
Nel trattato di Bonica(The Management of Pain, 1990), in un capitolo sulla nomenclatura del dolore, Merskey modificava la posizione di undici anni prima e la IASP rivedeva la Classification of Chronic Pain, senza rinunciare alla precedente definizione.
La nosografia classica ha introdotto molteplici classificazioni del fenomeno “dolore”: la più comune è la distinzione in dolore somatico e dolore viscerale. Una diversa suddivisione di interesse neurologico distingue il dolore in periferico e centrale. Le alterazioni comportamentali, cognitive, e psicopatologiche non vengono considerate in nessuna di tali definizioni.
Quando il dolore non rappresenta un processo adattativo, fisiologico, che protegge un individuo dalle lesioni e stimola la guarigione dopo il verificarsi di una lesione, ma è evidentemente un processo mal adattativo, patologico, dovuto a processi patologici di fronte ai quali il paziente non ha possiblità di evitamento, esso viene classificato, in base all'origine, in: a. dolore nocicettivo; b. dolore neuropatico; c. Dolore a patogenesi mista (nocicettiva e neuropatica); d. dolore psicogeno.
Solo nel 1980, nella terza versione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders redatto dalla American Psychiatric Association compare il termine di dolore psicosomatico (DSM III, 1980),e qualche anno più tardi, nell’aggiornamento DSM-III-R compare il termine di dolore somatoforme. (nei disturbi somatoformi vi è la preoccupazione di sintomi fisici, non giustificati dalla fisiopatologia clinica, ma non simulati intenzionalmente, e nel disturbo somatoforme algico il dolore persistente s’associa a problemi psico-sociali.
Il dolore nella Psicopatologia
Esiste un rapporto patogenetico dimostrato tra dolore cronico e patologia psichiatrica. Questo rapporto si declina in differenti forme ed interazioni biunivoche: a) Il dolore rappresenta la causa della patologia psichiatrica; b) il Dolore e le manifestazioni psichiatriche sono alterazioni di una patologia psicologica e psicodinamica maggiore e più profonda; c) Dolore e manifestazini psichihatriche coesistono quali espressione di un’alterazione biologica; d) la manifestazione psichiatrica è causa o fattore di rischio per il Dolore Cronico.
Sulla base di una virtuale scala di valori e di gravità, tra le sindromi di interesse psichiatrico correlate alla sintomatologia dolorosa o a quadri algici conclamati è possibile, in una prospettiva euristica più che per una esigenza tassonomica, evidenziare quattro livelli di gravità: 1 - il dolore quale sintomo correlato al disturbo d’ansia (più frequentemente questa correlazione è stata dimostrtata con il Distrurbo d’Ansia Generalizzato – GAD); 2 - il dolore quale sintomo di conversione o quale tratto ipocondriaco, con frequenti caratteristiche di carattere fobico; 3 - il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (quando il paziente organizza una autentica ruminazione ossessiva relativa alla propria sintomatologia dolorosa; 4 - il delirio. Quando la sintomatologia dolorosa assume una struttura delirante. Il dolore mentale della psicosi schizofrenica, la depressione endogena (13).
Un capitolo storicamente importante ha riguardato il rapporto tra depressione e dolore, mentre, più recentemente, il rapporto tra il Disturbo d’Ansia Generalizzato e Dolore ha assunto un ruolo più evidente e centrale. Se la persistenza del dolore, l’influenza coinvolgente del significato attribuitogli causano spesso ansia e nervosismo, questa condizione accentua lo stress ed accresce la componente dolorosa (ad es.: la sindrome fibromialgica). La concomitanza di caduta nel tono dell’umore e di consunzione della sopportazione possono determinare la comparsa di depressione reattiva sintomatica (che, in genere, cessa con la scomparsa del dolore). L’Ipocondria, la depressione primaria e gravi disturbi della personalità sono forme caratterizzate ed associate da dolore immaginario o mentale.
Come dicevamo, la patologia oggi più frequentemente correlata alle esperienze di dolore è il Disturbo d’Ansia Generalizzato. Il quadro clinico del GAD è caratterizzato da Ansia cronica, Stati di allarme persistenti, Sensazione costante di “attesa apprensiva”, Attivazione permanente del sistema neurovegetativo, Sintomi della sfera cognitiva, Incapacità a rilassarsi, Costante stato di apprensione e tensione, Persistente vissuto di minaccia, Risposte esagerate di allarme, Difficoltà di concentrazione, Paura di perdere il controllo, Deficit secondari al disturbo del sonno, Altamura, Tacchini, Charitos, Santini, Fusi, 2003.
Nel Gad è molto probabile che tendano a prevalere i disturbi somatici e che anzi questi rappresentino la maschera iniziale della patologia. Tra questi disturbi somatici, i dolori, di varia natura rappresentano la prevalenza (14).
La maggior parte dei pazienti con GAD, infatti, non manifesta ansia quale disturbo primario, mentre più della metà manifesta disturbi somatici e dolore (15). Il GAD è stato associato con frequenza significativa a vari tipi di dolore cronico: lombalgie, dolore neuropatico periferico, dolore gastroenterico, dolore neoplastico, artralgie, fibromialgie (16). Inoltre, è stato associato con vari tipi di cefalea: emicrania, cefalea non emicranica, cefalea a grappolo episodica, cefalea tensiva (17). Infine, anche con altre sindromi dolorose quali: il dolore del colon irritabile ed il dolore toracico.
Un paragrafo a parte meriterebbe proprio la correlazione tra Depressione e dolore, in quanto i dati della letteratura e l’esperienza clinica suggeriscono l’importanza di diagnosticare la depressione clinica nei pazienti affetti da dolore cronico. Esistono molte evidenze dell’influenza che intercorre tra Malattia Depressiva e dolore: Sintomatologia dolorosa e condizione depressiva si influenzano vicendevolmente; Malattia Depressiva e Dolore si associano spesso e non infrequentemente la Malattia Depressiva sottostante la sintomatologia algica viene sottovalutata. Alcuni Autori hanno affermato che “il dolore cronico è una variante specifica dei disturbi dell’umore, per cui lo si può considerare una forma di depressione mascherata” (18). In pazienti depressi, la sofferenza psichica può essere espressa anche solo attraverso un dolore fisico. In tali circostanze esso rappresenta il segnale, la maschera della depressione (depressione mascherata). In altre sedi, queste forme sono state definite Dystimic Pain Disorder, evidenziando l’importanza del riconoscimento del quadro depressivo sottostante, poiché in questi casi la terapia psicofarmacologica con antidepressivi risolve la sintomatologia. Dolore e depressione condividono in parte i meccanismi patofisiologici (5HT, NA, oppioidi); dimostrazione della efficacia degli antidepressivi soprattutto a doppia via. La frequenza di correlazione tra depressione e dolore cronico è stata valutata essere del 56%. E’ dimostrata oggi la analoga correlazione tra fenomeni biochimici e trasmettitori del disturbo affettivo e soglia del dolore. Molte ricerche hanno dimostrato il ruolo del sistema serotoninergico nella sintesi neuronale tra depressione e dolore.
Sistema serotoninergico e dolore
E’ nota l’efficacia di farmaci ad azine serotoninergica nel trattamento del dolore cronico. Sono state dimostrate diverse azioni degli antidepressivi su numerosi altri sistemi neurochimici: l’esaltazione dell’attività della 5-HT, indotta dagli SSRI produce effetti apparentemente opposti sulle vie dolorifiche, svolgendo contemporaneamente una facilitazione di alcune tappe dei processi flogistici periferici ed il già accennato controllo centrale inibitorio sulla trasmissione dolorifica ascendente (19).
Gli attuali progressi della ricerca stanno approfondendo il rapporto tra stimolazione serotoninergica ed altri dispositivi di modulazione del traffico di afferenze dolorifiche. Speciale interesse suscitano le connesioni con la sostanza P, con i recettori omega delle endorfine e con i meccanismi di attivazione recettoriale del glutammato.
Il sistema Serotoninergico è coinvolto in alcune fasi patogenetiche delle emicranie. Tali conoscenze sul Sistema serotoninergico hanno contribuito ad ampliare la complessità dei meccanismi patogenetici alla base dei fenomeni algici. Al proposito contribuisce il modello della “Spreading Depression”.
E’ stato postulato che il sistema serotoninergico sia funzionalmente articolato in sotto-sistemi funzionali, contigui sotto l’aspetto filo-ontogenetico.
Le cefalee primarie vedono come primum movens patogenetico un disordine neuromediato della vasomotilità cerebrale; si associa quindi l’attivazione di mediatori infiammatori sotto una precisa modulazione neuroendocrina e neurotrasmettitoriale. Il Sistema Serotoninergico è coinvolto in tutti questi livelli di regolazione funzionale.
Per quanto riguarda più alti livelli di integrazione connessi alla percezione del dolore, fino alla sua modulazione cosciente in rapporto all’emotività ed al comportamento, le interconnesioni con il Sistema Serotoninergico divengono sempre più complesse. Va considerato, al proposito, il ruolo complesso che il dolore cronico o ricorrente riveste quando viene percepito nel vissuto individuale, ed elaborato sulla base delle diverse modulazioni del tono dell’umore. L’azione del Sistema Serotoninergico sulle strutture reticolari del tronco encefalo, in particolare il grigio periacqueduttale, i nuclei del rafe magnum ed il corno posteriore del midollo spinale sono state poste in relazione alla decodifica del segnale nocicettivo. Infatti, il Sistema antinocicettivo discendente è capace di modulare dall’alto le afferenze dolorifiche in relazione allo stato fisiologico del soggetto, comprendendo in quest’accezione lo stato di coscienza e le relazioni socio-affettive nei diversi correlati motori ed autonomici.
Conclusioni
Il dolore è un’esperienza che si differenzia tra diversi individui a seconda della loro storia personale e delle condizioni sociali e culturali e per uno stesso individuo nei diversi momenti. L’atteggiamento nei confronti del dolore non è mai fisso, è sempre in potenza, probabile ma non certo. La sua intensità è modulata dallo stato mentale dell’individuo ed è dimostrato che eventi mentali modificano la soglia al dolore perché influiscono sulla componente cognitiva ed emotiva del dolore, rivelando resistenze insospettate o, talora debolezze inattese. La soglia del dolore è modificata da situazioni di anticipazione, di suggestione e di ricordo delle esperienze passate.
Dolore e sofferenza non sono sinonimi, quando il primo è considerato un fenomeno totalmente fisico e la seconda è intesa come un disagio emozionale cosciente, che può diventare angoscia, la quale urlando nella mente s’allarga a travolgere la ragione. Una difficile sintesi relativa alle questini poste in essere in questo breve contributo deve indurre la fiducia e la speranza nella ricerca quale fattore di sviluppo delle conoscenze relative alle intersezioni tra meccanismi neurofisiologici e mmacanismi della mente. Allo stesso modo uno scambio sempre più dinamico tra scienze umane e scienze del comportamento è auspicabile per la promozione di una cultura e dei saperi che abitano l’annoso dilemma dei rapporti mente-corpo. Lo sforzo dovrebbe essere il superamento dei dualismi, imperanti nel passato relativamente alla divisione tra dolore fisico e dolore psicogeno (tra somatico e viscerale). Infatti, la mancanza di una concezione olistica della persona fa ritenere, che il dolore abbia un impatto, cognitivo ed emozionale, più o meno identico in tutte le persone. Il dolore funzionale attende ancora una spiegazione così come i tanti dolori organici insoluti e le algie con un’origine relazionale. Infatti, il dolore ha valenze sociali e ricopre una funzione culturale. La scienza e le scienze umane dovranno procedere ad uno scambio multidisciplinare e non autoreferenziale delle conoscenze reciproche. Di fronte a tanti epocali dolori della nostra epoca nessuna domanda e nessun senso giustifica l’ingiustificabile. Noi affrontiamo con rassegnazione un dolore quando esso è innocente nel senso che ci viene dalla natura (che così ci appare con tutta la sua violenza offrendo alla vita solo la sua spietatezza), ma ci paralizza l’incomprensione quando esso coinvolge un innocente, in cui è riposta maggiormente una speranza di vita: il tradimento è inaccettabile e catastrofico.
Nell’adulto il corpo si sente e si vive in tutta la sua interezza, mente il corpo malato sente se stesso nella propria limitatezza e nella propria tragedia. Per tale motivo l’esperienza del dolore si traduce in una disastrosa demoralizzazione. Se il dolore è esperienza radicale della perdita di sé e nel dolore si annida l’angoscia, quale preoccupazione dell’universale, a questo punto il soffrire non può essere più individuale, ma il sé del sofferente è una variazione del dolore universale. In relazione a questo aspetto, l’esperienza del dolore - in quanto prova - appare del tutto inadeguata alla prospettiva psicologica della nostra epoca. Non è di crescere nella sofferenza che urla il nostro destino, ma di crescere e basta, sereni, in una rinnovata speranza di vita.
La scienza ha la responsabilità di superare ed avitare, per quanto possibile un dolore. Conosciamo tutti che per superare il dolore, oltre a utilizzare gli strumenti della ragione e della fede, ci sono altri modi.
L'esperienza del dolore si articola sempre in un’area virtuale circoscritta dall’immanenza della malattia e dei suoi danni e dagli infiniti significati o donazione di senso relativi alla storia, alle culture, alle dimensioni del mondo. All’interno di quest’area si delinea, sul piano etico, l’orizzonte dei diritti umani. In una società in cui i valori dominanti sono quelli della solidarietà, diviene categorico che la razionalità aiuti gli individui a soffrire di meno.
Nella ricerca e nell'analisi delle cause della sofferenza la nostra cultura è rimasta fondamentalmente superficiale.
La nostra morale (laica o religiosa) rimane fondata su principi di libertà, di tolleranza, di giustizia e di solidarietà. Su principi, quindi, che ci sembrano utili e giusti per ogni persona. Noi speriamo soprattutto che questa morale sia alimentata dall’ottimismo, nella certezza che le conoscenze scientifiche rappresentano una determinante risorsa per la speranza e per il nostro futuro.
BIBLIOGRAFIA
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