LE 10 COSE CHE IL PAZIENTE NON DEVE DIRE AL MEDICO,
LE 10 COSE CHE IL MEDICO NON DEVE DIRE AL PAZIENTE:
LA RELAZIONE CHE CURA
Giovanna Simona Griso, Psicologa Psicoterapeuta – Consulente Scientifico ALCE-Campania
simona.griso@libero.it
Parole chiave: relazione, compliance, comunicazione
Chiedetevi non quale malattia la persona abbia,
ma piuttosto quale persona abbia la malattia
William Osler, da “Un antropologo su Marte” di Oliver Sacks
Introduzione
Il titolo di questa relazione richiama un articolo precedentemente pubblicato su Cefalee Campania News n. 8 di Luglio 2011 a nome del dott. Cassano e della signora Lara Merighi (presidentessa dell’Associazione Cefalgici Italiani ALCE), vero e proprio decalogo sulla comunicazione medico-paziente, in cui sono state elencate “Le 10 cose da non dire ad un cefalalgico” e “le 10 cose da non dire ad un medico”.
L’articolo che segue vuole ricondurre i punti elencati a un comune denominatore: la relazione che cura.
I protagonisti dell’incontro: medico e paziente
Il rapporto tra medico (o operatore sanitario) e paziente diviene occasione per i protagonisti dell’incontro di esperienze intense, profonde; talora straordinarie, altre volte frustranti e deludenti: esperienze che possono cambiare l’esistenza di entrambi e rimanere iscritte per la vita nel profondo dell’anima. Qualunque sia il tipo di relazione terapeutica, il medico-operatore agisce, in virtù del proprio ruolo, per accogliere bisogni, timori, dolore, sofferenza, malattia, morte. La storia di malattia incontra la storia di cura. Il paziente con la sua storia incontra il medico con la sua storia.
Il percorso terapeutico
E’ chiaro che il lavoro di cura è un itinerario tortuoso e complesso, molto di più oggi che in passato, quando un solido bagaglio teorico e la capacità di mantenere "un'olimpica neutralità" erano considerati strumenti terapeutici sufficientemente adeguati. Affrontando poi il mondo dei sentimenti - per troppo tempo escluso e trascurato - si sono dischiusi nuovi orizzonti, per dirla con Proust, "l'assenza d'affetto come segnale d'affetto forte". L’antica favola di Esopo de “il lupo e la gru”, la quale deve col becco introdursi nelle fauci del lupo per estrargli un osso rimasto pericolosamente conficcato in gola, pur nel timore di finire divorata tra i suoi denti, illustra una fantasia arcaica legata all'intervento medico: la sensazione, a volte, di essere divorati dai pazienti - per la cui avidità nessun cibo offerto appare sufficientemente appagante; e in aggiunta la necessità di affrontare un viaggio rischioso, irto di pericoli, all'interno dell'altro, con cui ci si deve fondere, ma non confondere, e da cui non si sa se si riuscirà a tornare alla realtà e quindi a separarsi e a distinguersi.
Winnicott, con il termine “holding”, indica come si dovrebbe tenere in braccio (così come nella propria mente) il bambino ed il paziente, rimanendo “là dove egli è' e dove chiede di essere raggiunto” .
Nella relazione medica oltre a tollerare e condividere, condizioni essenziali dell'incontro empatico, è importante saper attendere, sapersi avvicinare gradualmente, mettendo da parte le pretese sciamaniche di avere già tutte le risposte in tasca, nonchè ascoltare, considerando che chi sta di fronte è qualcuno che ha una sua storia personale da raccontare, diversa da tutte le altre e che deve avere il tempo, la disponibilità e la voglia di farlo. Il racconto nell’incontro medico non è soltanto la “narrazione di fatti ed eventi clinici..., non è un testo, ma sempre un contesto, una relazione, un raccontare ad un altro, che ascolta all'interno di una trama comunicativa d'affetti, di relazioni e di emozioni, che sono le precondizioni essenziali e preverbali". Così come avviene nel Piccolo Principe di Saint-Exupery: l'incontro tra la volpe del deserto ed il principe venuto da una stella, è ancora una volta, metafora della gradualità necessaria nell'avvicinarsi a chi, sia pure ritroso e selvatico, desidera che qualcuno lo raggiunga. La volpe della favola desidera, infatti, che il Piccolo Principe lo addomestichi, e “addomesticare - lei dice - significa creare dei legami... cosa che da tempo gli uomini hanno dimenticato”. Un avvicinamento graduale - come suggerisce la volpe stessa al principe e questi deve accontentarsi all'inizio di guardarla da lontano, senza parlare, “perché le parole, spesso, sono fonte di malintesi”. Successivamente, ci si potrà avvicinare ogni giorno un po' di più, ma sempre alla stessa ora, e quell'ora sarà importante e diversa da tutte le altre. La volpe non si limita però solo a questo, ma svela al principe il suo segreto: "non si vede bene che col cuore! l'essenziale è invisibile agli occhi... Solo le cose che si addomesticano e a cui si dedicano tempo ed energia si conoscono profondamente", e di esse si rimane responsabili per sempre, anche quando inevitabilmente ci si deve separare, proprio come avviene nella fiaba e nella realtà.
“Il maternage terapeutico fornisce l'anestesia necessaria al cambiamento” (Withaker).
I sentimenti sono come “ponti relazionali”, per la loro capacità di legare più o meno saldamente gli individui fra loro, in modo che la pratica clinica si fondi proprio sulla possibilità di costruire un solido collegamento, che consenta di entrare in contatto profondamente con il paziente in modo da veicolare tutte le possibili “costruzioni di senso”, che favoriscono la sua crescita.
Il sentimento, inteso come ponte relazionale, rappresenta l’ordito su cui risalta la trama dei contenuti e per questo non può restare fuori del comunicabile. E’ ancora più ovvio, dall’altra parte, che se il curante non mantiene il contatto con i propri sentimenti, nella relazione terapeutica, la comunicazione può risultare arida, frammentaria ed anche reattiva. Essenzialmente il medico riesce ad entrare in contatto con questo dolore e farlo momentaneamente suo. Ma con sottile ironia, una vecchia fiaba tedesca suggerisce che non è proprio vero che consapevolezze dolorose tolgano energie, rendendo più vulnerabili. Esistono persone, dice ancora la fiaba, che nascono con un cuore di cristallo, un cuore vibrante e sensibile, capace di risuonare ad ogni sensazione e di percepire le vibrazioni dell'altro. C'è il rischio, però, che questi cuori, se sottoposti ad urti troppo violenti, possano spezzarsi irreparabilmente. Spesso, invece, si incrinano soltanto e - come tutti sanno - gli oggetti incrinati sono gli ultimi a... rompersi.
La seconda cibernetica ha sancito la necessità da parte del curante di conoscere appunto le proprie emozioni con l’obiettivo di esserne consapevole ed usarle come “porta d’ingresso” nella relazione di cura.
L’accoglienza
Il primo incontro, quindi, diviene un ricevimento con dimostrazione di affetto, alla luce dell’
accoglienza (dal latino colligere, raccogliere presso di sé):
- ricevere
- prendere insieme
- comprendere-accettare
L’accoglienza determina il clima che consentirà o no di creare con l’operatore e con il servizio quella vicinanza tale da permettere la costruzione della fiducia necessaria a dare spazio all’intenzionalità risolutiva delle persone e alle loro sofferenze e difficoltà: presa in carico/fidelizzazione.
L’incontro crea la relazione e ne determina le caratteristiche. Così possiamo riconoscere
- l’eccessiva distanza, la freddezza difensiva, fino al cinismo, possono portare ad una relazione terapeutica carente ed avvilente sia per l’utente sia per l’operatore;
- l’eccessivo coinvolgimento, una distanza troppo ravvicinata e un impatto emotivo non regolato possono portare ad una relazione inefficace e dannosa (il complesso di salvazione);
2) relazioni piacevoli:
- ci si riesce a muovere nella giusta distanza, e nella giusta vicinanza, la tecnica diventa spontaneità e la relazione terapeutica diventa efficace;
- fonte di soddisfazione per il paziente e vero e proprio piacere per il medico: come una réverie;
- la speranza quale elemento terapeutico, in quanto permette di dare una risposta al quesito più radicale che in ciascuno di noi affiora nei momenti di spaesamento, angoscia, disperazione.
Dopo la prima accoglienza si rappresenta l’atto medico vero e proprio, dove la componente tecnica - Diagnosi e Cura - e la componente relazionale sono legate indissolubilmente. Dal “curare” una malattia al “prendersi cura” di un paziente considerato nella globalità della sua persona ed inserito nel suo contesto familiare e sociale. Il paziente non è semplicemente il portatore di un danno cellulare più o meno complesso, ma una persona che necessita, in tutti i momenti dell’iter diagnostico-terapeutico, di una presa in carico globale, attenta e sensibile, a tutti i bisogni che direttamente o indirettamente il soggetto esprime.
Le dimensioni del vissuto del paziente secondo la medicina patient centred riportati da Moja e
Vegni nel 2000 riguardano:
- Sentimenti
- Interpretazioni di malattia
- Aspettative e desideri
- Contesto.
Per semplificare, un paziente nell’incontro con il medico cerca:
- Sollievo dei suoi disturbi
- Soluzioni per i problemi di salute e di benessere
- Speranza
- Semplicità
- Sicurezza di comportamento
- Speditezza di procedura
Laddove il medico cerca:
- La conduzione. Assumersi la responsabilità equivale a mantenere il termometro medico e relazionale. Transfert nei confronti del medico
- Onnipotenza, quale meccanismo di difesa dall’eccessivo coinvolgimento emotivo. Sembra più facile pensare di avere i contenuti per curare la malattia, con eccepibili protocolli, che conoscere il paziente nell’individualità.
- Compliance al percorso terapeutico, affidamento al percorso di cura.
- Alleanza terapeutica intesa come costruzione di una competenza e di uno stile comunicativo – relazionale tale da coinvolgere il paziente in modo attivo.
L’arte della comunicazione
In sintesi, la costruzione di una competenza comunicativo-relazionale diventa un obiettivo assistenziale strategico: l’uso consapevole e appropriato di tecniche di comunicazione - l’arte di ascoltare, chiedere, rispondere, comunicare senza parole - consente un aumento dell’efficacia comunicativa durante l’interazione, permette l’instaurarsi di una relazione terapeutica ottimale nel tempo e quindi influenza in modo rilevante alcuni esiti nei comportamenti e negli atteggiamenti del paziente, quali la soddisfazione circa la visita medica, la comprensione e il ricordo delle informazioni ricevute, l’attenersi alle prescrizioni terapeutiche e una riduzione delle preoccupazioni. La comunicazione diviene terreno tra medico e paziente sul quale costruire un’alleanza terapeutica che consente di ottenere il miglioramento clinico attraverso l’aderenza ai trattamenti terapeutici. Di comunicazione si può parlare a diversi livelli ed elencare paradigmi essenziali, ma la regola da considerare sopra tutto è adeguare il registro verbale alle caratteristiche dell’interlocutore, avere come obiettivo la comprensione reciproca e non altri fattori.
In definitiva, la relazione si dispiega nella sua essenzialità ed anche nella sua complessità. Cosa può aiutare la relazione tra i coinvolti? Il lavoro in rete, un contesto di cura allargato. Lo specialista si deve avvalere di un’èquipe interdisciplinare, che facilita la presa in carico globale del paziente, riduce il suo sentimento di solitudine con confronti sui casi clinici e contiene l’onnipotenza;il paziente si deve avvalere di associazioni strutturate con statuti organizzati da Comitati tecnici scientifici. Nel caso specifico delle Cefalee l’attività ambulatoriale, gestita da medici specialistici, in rete con ambulatori territoriali, si pone in sinergia con l’Associazione di pazienti-ALCE. Il paziente si sente accolto, contenuto e compreso, il medico non si sente solo.
Concludendo
Per i giovani operatori della salute, è forte il fascino dell’avventura terapeutica in tutta la sua potenza, a volte spaventata, a volte trascinata, ma c’è una favola che può infondere una certa tranquillità; essa appartiene alla raccolta dei fratelli Grimm e racconta del pescatore povero e saggio e di sua moglie avida e stolta. Il pescatore pesca una mattina un rombo d’oro e fatato, che in cambio della sua vita gli dà la possibilità di desiderare qualsiasi cosa; il pescatore farebbe a meno di chiedere alcunché, se sua moglie non lo pressasse con continue richieste di una casa migliore. La favola va avanti con un incalzare di richieste da parte della moglie molto esigente, perché, presa da un incontenibile desiderio, che non le dà pace: vuole diventare prima duca, poi re, poi papa. Infine, posseduta dalla sua follia, vuole far sorgere e tramontare il sole, vuole essere Dio. A questa ultima richiesta, il rombo risponde all’uomo di correre a casa poiché la donna è precipitata nella sua catapecchia. Dentro di noi c’è sempre una saggezza appagata ed un desiderio irrefrenabile di possedere: nel mare delle scienze umane i rombi d’oro sono veramente tanti.
Il fascino della sfida consiste nel mantenere un giusto equilibrio tra questi due aspetti, in modo da far sì che la saggezza non ci porti all’immobilismo e la sete di conoscenza non sia causa della nostra rovina.
Bibliografia
- L.Baldascini, “Legami terapeutici”, Ed. FrancoAngeli, Milano, 2002
- G.Bateson, “Mente e Natura”, Ed. Adelphi, 1984
- F.Capra, “La rete della vita. Una nuova visione della natura e della scienza”, Ed.Rizzoli, Milano 1996.
- De Saint-Exupery, “Il piccolo Principe”, Ed. Bompiani
- C. Withaker, A. Napier, “Il crogiolo della famiglia”. Astrolabio, Roma, 1981.
- C.A.Whitaker, A.Napier, “Process Techiniques of Family Therapy”,Motreal, 1971
- E. Moja E. Vegni, “La visita medica centrata sul paziente, Anno 2000, Ed. Cortina Raffaello