O PIZZAIUOLO
di Raffaele Viviani
Siamo nei primi anni '40 del nostro secolo: c'è la guerra, la disperazione, il freddo, ma soprattutto c'è la fame.
Un povero pizzaiolo è uscito per i vicoli di Napoli con il suo ruoto in testa, pieno di pizze che spera di rifilare agli infreddoliti e squattrinati passanti. Passano cinque ore, ma di acquirenti nemmeno l'ombra: e intanto le pizze son diventate fredde, quasi delle taccuscelle, cioè delle suole per le scarpe. Beh!, si consola il miserello: almeno gli serviranno per farsene chiantelle, vale a dire delle umili babbucce.
Costui prova allora ad invitare ad affrettarsi all'acquisto tutti quelli che incontra, dicendo loro che sta ormai per andarsene. "E vattenne", gli rispondono poco elegantemente i passanti, che non perdonano a lui (che magari una pizza l'avrà assaggiata) di stuzzicarli, senza che essi, poveri in canna, possano saziare la loro atavica fame.
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NOTE:
- 1. Arrassusia: non sia mai.
- 2. surbettera: sorbettiera (contenitore di gelati)
- 3. saccuscelle: pezzi di cuoio per i tacchi delle scarpe
- 4. vvengo: vendo
- 5. sfriddo: calo
- 6. chiantelle: suolette
- 7. vrenna: crusca
- 8. serra: sega
L'ORO DI NAPOLI: IL POETA RAFFAELE VIVIANI
Raffaele Viviani fu, prima di tutto, attore e capocomico, autore di teatro, poeta e cantautore. Ed è proprio l’esperienza di attore che ha influito sulla sua scrittura, sul suo specialissimo modo di scrivere o di riscrivere i testi poetici, conferendogli grandissima originalità.
Nacque nel 1888 a Castellammare di Stabia, in provincia di Napoli. Il vero cognome del commediografo era Viviano e, solo quando divenne noto, fu mutato in Viviani, considerato dal medesimo Raffaele più artistico e teatrale. La sua era una famiglia povera. La grande passione per il teatro gli fu trasmessa, fin da piccolo, dal padre, impresario e vestiarista teatrale dell’Arena Margherita di Castellammare di Stabia e, dopo il trasferimento a Napoli, fondatore del teatro Masaniello presso Porta Capuana e proprietario di piccoli teatri popolari.
Papiluccio – appellativo col quale Viviani veniva chiamato dai suoi cari – era appena un ragazzino quando gli morì il padre e dovette occuparsi della madre e della sorella Luisella, anch’ella giovane attrice e grande cantante. I tre vissero nella più cupa disperazione e miseria.
Nonostante fosse una persona analfabeta, Raffaele Viviani volle studiare da autodidatta per migliorarsi, riuscendo così a riscattarsi socialmente e culturalmente dopo un lungo tirocinio, da artista poliedrico quale egli era. Con la sua compagnia di teatro di prosa dialettale (fondata nel 1917 e diretta personalmente da lui fino al 1945) di cui fece parte anche la sorella, fu ammirato e apprezzato in tutti i teatri d’Italia, d’Europa e oltre Oceano. Il suo debutto di attore, autore e regista avvenne il 27 dicembre del 1917 al Teatro Umberto di Napoli, quando inscenò il dramma ‘O vico, commedia in un atto in versi, prosa e musica.
Il suo teatro è fatto di creature vive, di ritratti umani tragico-comici della società napoletana e non di figure romanzesco-letterarie. Il suo non è un popolo piccolo borghese di matrice scarpettiana, ma un popolo di scugnizzi, di spazzini, di guappi, di prostitute, di ladri, di miseri vagabondi, di venditori ambulanti, di vicoli, di rioni e di quartieri napoletani degradati, dove si vive un’esistenza faticosa e penosa, di indigenza e di emarginazione. Sulle tavole del suo palcoscenico prendono vita i sentimenti, le ansie, le passioni, le gioie, i problemi, le lotte, le ingiustizie e le rivendicazioni di questa umile plebe napoletana, che diventa metafora dell’intero universo. Viviani analizza attentamente la realtà sociale in cui vive per poi rappresentarla sul palcoscenico attraverso “macchiette”, percorse da una vena crudelmente neorealistica e una comicità e un’ironia ricche di tragico sentimentalismo.
Tuttavia la scena realistico-popolare di Viviani è fatta di umorismo, di versi, musica, canti e balli; essa è un insieme di numeri che fanno parte di un genere teatrale minore, detto per l’appunto Varietà, che si diffuse verso fine Ottocento e primo Novecento. Il varietà popolare vivianesco dovette però fare i conti con l’Italia fascista. L’Italia perbenista, la borghesia benpensante e la cultura e la censura fascista chiesero ed ottennero i tagli sui copioni vivianei. Il fascismo era pronto ad ostacolare la diffusione delle compagnie dialettali e quel teatro regionale-popolare, di cui Papiluccio era rappresentante.