I CAFFE' DI NAPOLI
Storia, politica, musica e letteratura tra un caffè e un pasticcino
Nella prima metà dell’Ottocento, lungo via Toledo, principale arteria della città, si contavano una trentina di caffè: da quelli di gran classe, frequentati da danarosi borghesi e aristocratici, a quelli infimi, zeppi di brutti ceffi disposti a tutto pur di mettere a segno qualche “lazzarata”. Ma i caffè furono anche il cenacolo di giovani liberali. Sia dopo la rivoluzione del 1799 sia dopo i moti del 1848, i locali divennero il ritrovo dei giovani cospiratori, in maggioranza studenti provenienti dall’Italia meridionale. E bersaglio del “potere” i caffè lo furono anche dopo la fine dell’ultracentenario regno borbonico. Dopo il 1860, la casata sabauda sollecitò la chiusura di molti esercizi che continuavano ad essere punto d’incontro di troppe “teste calde”, mazziniani e garibaldini delusi.
A questo si aggiunge che con la fine dei Borbone venne meno il collante cospirativo che aveva fatto la fortuna di diversi caffè letterari, i quali dovettero chiudere i battenti per mancanza di “clientela colta e rivoluzionaria”. Ma fu una fase transitoria. Il rifiorire della cultura e dell’arte e i nuovi fermenti letterari che arrivavano dal resto d’Europa, e in particolare da Parigi, rilanciarono i caffè napoletani pronti a vivere l’eccitante periodo della Belle époque.
Accanto a questi scintillanti ritrovi che ospitavano artisti come Pietro Mascagni o Francesca Bertini, continuavano a tenere banco locali malfamati come il Café d’o cecato (il caffè del cieco), abituale meta della malavita napoletana, ai cui tavolini sedevano camorristi e violenti, ladri e sfruttatori di prostitute.
I caffè divennero anche l’ufficio per scrittori, poeti, giornalisti e avvocati. Francesco Mastriani, autore di romanzi d’appendice come Le ombre o I vermi, apparsi a puntate sui giornali popolari del tempo, scriveva ai tavolini dell’Aceniello in via Foria. A leggere iscrizioni antiche al Caffè d’Europa, in via Chiaia, stazionava Teodoro Mommsen, archeologo di fama mondiale, mentre al Trinacria, in via Toledo, ritrovo della Napoli-chic amatissimo da Giacomo Leopardi, aveva aperto il suo “ufficio” Gennaro Sambiase, duca di Sandonato, uno dei primi sindaci della Napoli post-borbonica. Don Gennaro aveva trasferito la sua sede operativa al Trinacria, ribattezzato Caffè d’Italia, e tra una “tazzulella” e un pasticcino scriveva delibere per il risanamento del porto, l’illuminazione stradale e il potenziamento della rete idrica. Mentre varava progetti municipali, trovava anche il tempo di far sedere al suo tavolo i cittadini che chiedevano di essere ascoltati.
Più di trent’anni prima dell’Unità d’Italia, giunse a Napoli uno svizzero di origini tirolesi, Luigi Caflish, tipo in gamba che aveva fatto la gavetta per mezz’Italia. Fu lui il primo a capire che col caffè ci si poteva arricchire, il primo a mettere in piedi una “catena” di esercizi commerciali, da via Chiaia a via Partenope, da via Toledo a Capodimonte. Nel 1932, la Luigi Caflish & C. contava otto botteghe con 250 dipendenti, un bel record in quella Napoli che grazie al caffè era riuscita a dare un calcio alla disoccupazione.
Di quel piccolo impero è sopravissuto solo il Caffè di via Chiaia, che continua a trasmettere l’atmosfera “d’antan” attraverso i suoi decori e il delizioso salottino con ringhiera, dove è possibile indugiare coccolati da un personale che conosce non solo l’arte della “tazzulella”, ma anche i ritmi cadenzati che scandiscono aroma e sapore.
Nella Napoli di oggi è rimasto anche un altro “monumento” che merita un discorso a parte. Stucchi dorati, decorazioni di legno, affreschi alle pareti fanno del Gambrinus il caffè-mito.
Già al suo apparire nel 1860 col nome di Gran Caffè, e più ancora a partire dal 1890 quando prese la nuova denominazione, fu approdo elegante di artisti, poeti, letterati e musicisti. Una preferenza accordata non solo per la bellezza delle sale ma anche per la posizione baricentrica rispetto ai grandi punti d’attrattiva napoletani: il teatro San Carlo, piazza del Plebiscito, il Palazzo Reale, la galleria Umberto, le storiche chiese di San Ferdinando e di San Francesco di Paola. Amatissimo da Gabriele d’Annunzio, che proprio su un tavolino del Gambrinus scrisse nel 1904 “’A vucchella” (la boccuccia), diventata una hit della Belle époque. Una canzone, fra le altre cose, utilizzata dal Vate per pagare i debiti che aveva accumulato col tollerante proprietario del locale.
Dei caffè letterari sono rimaste sparute tracce anche se il rito antico dell’espresso si rinnova in cento e cento ritrovi sparsi un po’ in tutta la città. Un “café littéraire”, vero punto d’attrazione per chi vuole attingere agli umori di una capitale europea come Napoli, è Intramoenia, in piazza Bellini, dove al sole o sotto un pergolato o nelle accoglienti sale interne si può sorseggiare un delizioso caffè o un ottimo cappuccino. Ambiente elegante e curatissimo ed espresso caldo e cremoso nella tradizione più ortodossa, con una clientela sempre scelta, alla Caffetteria, nome di due locali di piazza dei Martiri e di piazza Vanvitelli.
Per chi, infine, volesse respirare atmosfere insolite, c’è un luogo veramente delizioso: il Megaride a Santa Lucia. Sull’isolotto di Borgo Marinaro, dominato dal tufo del Castel dell’Ovo, con l’illuminazione affidata ai romantici lampioni a gas e la salsedine che entra nelle narici, si può bere uno sperimentato caffè, mentre i vecchi barcaioli sistemano le reti e brontolano, con una punta di nostalgia, sul tempo che passa troppo in fretta.