L’evoluzione del concetto di paesaggismo a cavallo dell’Ottocento
nelle due famose scuole pittoriche partenopee
Alla fiera del Bello
Il termine “Scuola di Posillipo” viene coniato, con accezione dispregiativa, dagli artisti “accademici”, per differenziare la loro pittura, solenne ed “alta” da quella svolta da uno stuolo di artisti che dipingevano per clienti rappresentati per lo più da turisti stranieri che, a ricordo del tour svolto a Napoli e dintorni, chiedevano quadretti da portare con sé come souvenir.
Le origini
Il “posillipismo” affonda le sue radici da una parte nella tradizione figurativa seicentesca, rappresentata da Salvator Rosa e Marzio Masturzio che erano soliti dipingere dal “vero”. Il biografo settecentesco De Dominici racconta che costoro erano soliti andare “in barchetta, disegnando belle vedute della deliziosa riviera di Posillipo, e verso Pozzuoli”.
Dall’altra, un ruolo fondamentale viene svolto dalle influenze di artisti di origine nordica che, giunti a Napoli per motivi turistici, affascinati dai luoghi, vi permangono, talora a vita, riproducendone gli scenari.
Tra essi citiamo l’olandese Gaspar van Wittel, (Amersfoort 1653 - Roma 1736) caposcuola di un vedutismo “pulito” ed equilibrato, caratterizzato da un’osservazione minuta ed attenta, quasi “scientifica”, definita da un cromatismo chiaro e luminoso. E ancora, numerosi pittori inglesi (Wright of Derby, Jones, Cozens), francesi (Joseph-Claude Vernet, Manglard, Boguet, Volaire) , e tedeschi, con un personaggio di spicco quale Philipp Hackert: costui si trattenne a Napoli per ben diciassette anni, allontanandosene solo a seguito dei moti della rivoluzione giacobina del 1799.
Hackert non solo fu cronista minuzioso degli eventi e delle scene di corte della dinastia Borbonica, ma anche acquarellista dai tenui colori pastello e dalle trasparenze che già preannunciano il gusto neoclassico.
Il caposcuola: Anton Sminck van Pitloo
Toccò all’olandese Anton Sminck van Pitloo il compito di fungere da caposcuola e da elemento catalizzatore di questa nuova vicenda artistica. Siamo ai tempi del trapasso tra l’amministrazione murattiana e la restaurazione borbonica (1815). Pitloo giunge a Napoli dopo aver tanto viaggiato in una Europa in cui spiccano grandi nomi quali Constable, Corot, Turner (che nel 1828 tiene a Roma una mostra che avrà enormi risonanze; egli soggiorna anche a Napoli per un breve periodo). Apre una scuola privata di pittura a cui aderiranno artisti del calibro di Gigante, Smargiassi, Carelli, Vianelli. Più tardi, sull’onda del successo, vince la Cattedra di Paesaggio presso il Reale Istituto d’Arte di Napoli. Morirà alla giovane età di 47 anni, per un’epidemia di colera.
Lo stile di di Pitloo è agile, sintetico ed innovativo. Per questioni pratiche, egli adotta il procedimento della pittura ad olio su carta, montata in un secondo tempo su tela o cartone. Per primo, utilizza la tecnica della visione en plein airche prevede la trascrizione dal vero dell'ambiente naturale. Le sue vedute creano atmosfere che catturano lo spettatore ed aprono la strada al paesaggio romantico: sulla spinta di una forte tensione sentimentale, un posto, ripreso dal vero, si trasfigura in un luogo fiabesco, leggendario, a voler rappresentare una nuova, felice Arcadia
Al fianco di Pitloo, un ruolo di primo piano viene rivestito dal belga Frans Vervloet; e, ancora, dall’ abruzzese, originario di Vasto, Gabriele Smargiassi, che succederà a Pitloo nella cattedra di Paesaggio, dopo aver vinto un concorso in cui aveva prevalso, di stretta misura, su altro grande paesaggista Salvatore Fergola. Quest’ultimo era il pittore della corte borbonica, l’autore dei grandi quadri “ufficiali”, celebranti le solenni cerimonie inaugurali, le iniziative produttive promosse dal Sovrano delle Due Sicilie. Nonostante il suo ruolo di “cronista”. Anche Salvatore Fergola, insieme col figlio Alessandro ed il fratello Francesco, aderì alla Scuola. Caduto il regno borbonico, si dedicò al genere delle “marine”: le sue vedute furono elogiate dalla critica per il tono idilliaco e la colorazione ridente.
Giacinto Gigante rappresenta uno degli esponenti di spicco della Scuola, colui che, a ragione, può essere considerato uno dei massimi interpreti del paesaggismo romantico. Gigante prende le mosse dall’umile, ma prezioso per la sua formazione, lavoro di disegnatore presso il Real Officio Topografico; porta a compiuta risoluzione le intuizioni pitlooiane sulla pittura d’atmosfera, sul paesaggio quale testimonianza di stati d’animo. Grande colorista, Gigante dette il meglio di sé non con la pittura ad olio ma con l’acquerello, talora integrato con interventi a tempera, talaltra perfino guizzi di gessetto. Con questa tecnica “mista”, il maestro napoletano raggiunse esiti di strepitoso virtuosismo.
Verso il tramonto
La famiglia Carelli fu una dinastia di pittori: Gonsalvo col figlio Giuseppe; ma anche Raffaele, Achille, Gabriele.
A Gonsalvo Carelli, tipico esponente di artista dalla vita avventurosa -clichè così caro ai romantici- tocca marcare il trapasso dalla temperie posillipista alla nuova attitudine verista, interpretata da Filippo Palizzi.
Quest’ultimo si mostra un “rivoluzionario” con la sua pittura fatta su piccole tele, o tavolette, tutta attenta agli aspetti più semplici della realtà: animali, piante, inquadrature agresti. E con lui il fratello Nicola ed artisti quali Federico Cortese, Simone Campanile e Francesco Sogliano.
Con Filippo Palizzi, la vicenda della “Scuola di Posillipo” si chiude per sempre. La poetica del vero, la stessa pittura di paesaggio, hanno ormai imboccato diverse direttrici. Non c’è più posto per l’idealizzazione dorata, l’incanto e la leggenda; non c’è neppure più posto per la forma disegnata, per il contorno rigorosamente delineato, chiuso delle figure. Il colore è anche forma e le immagini vengono restituite a mo’ di “macchia”, secondo le “impressioni” dell’artista.
L’ altra Scuola
La “Scuola di Resìna”, (detta anche “Repubblica di Portici”, secondo l’ironica e sprezzante definizione di Domenico Morelli) viene costituita nel 1863 dal gruppo di “dissidenti” composti da Marco De Gregorio, Federico Rossano e da un giovanissimo Giuseppe De Nittis, appena espulso per indisciplina dall’Accademia napoletana, grazie all’azione catalizzatrice del toscano Adriano Cecioni, che trasportò ai piedi del Vesuvio le tematiche dei “macchiaioli” che frequentavano il Caffè Michelangelo di Firenze.
Il programma della Scuola fu dichiaratamente antiaccademico, orientato verso lo studio dal vero, l'immediatezza dell'impressione e affine a quello degli artisti fiorentini.
Una serie di personalità improntarono la pittura napoletana del secondo Ottocento, in cui venne ad innestarsi l’ultima, estrema pagina del paesaggismo partenopeo del XIX secolo, interamente all’insegna della “macchia”.
Ecco così presentarsi sulla scena personaggi del calibro di Domenico Morelli, autentica figura di riferimento della nuova situazione artistica, antitesi del paesaggismo, forse più apparente che sostanziale, amico-rivale del Palizzi.
E ancora Saverio Altamura, Michele Cammarano, Vincenzo Migliaro, Vincenzo Irolli, i fratelli Luca e Salvatore Postiglione fino alle personalità strepitose di Vincenzo Gemito e Antonio Mancini. Quest’ultimo si era formato alla scuola di Domenico Morelli e Filippo Palizzi, dipingendo scene di stampo verista del mondo popolare napoletano, attraverso colori densi e pastosi.
Una pagina a parte riguarda l’eco dell’arte napoletana sugli artisti abruzzesi, attivi in questa seconda metà del secolo con una densità ed un rilievo degni di nota. Tra essi citiamo Tiziano Pellicciotti, Giuseppe Bonolis, Patini e Michetti, Barbella, Della Monica, Celommi e Pagliaccetti. E, infine, ecco davvero quest’ultima stagione del paesaggismo napoletano, tuttavia capace ancora di un fascino di vaste irradiazioni: Giuseppe Casciaro, Francesco Lojacono, Rubens Santoro, Dalbono, Esposito e Ricciardi.
Siamo nel 1900: Gonsalvo Carelli è ancora vivo, ma il contesto culturale e sociale è talmente mutato che la vicenda della “Scuola di Posillipo” rimane solo una “bella favola”.