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Una visita a Pompei, la città sospesa



L’incomparabile fascino di una città senza tempo

di Marina Volpe

Dalla fondazione osca al periodo romano
Nell’antichità Pompei svolse un’importante funzione commerciale per l’entroterra, privo di sbocchi sul mare, favorita da una posizione strategica, vicino alla foce del fiume Sarno, in una terra ricca e fertile, dove confluivano le principali strade di collegamento e di grande traffico.
Fondata dagli Oschi tra l’VIII e il VII secolo a.C. e divenuta un importante centro commerciale, la città attirò le mire espansionistiche dei potenti stati confinanti: dapprima i Greci e gli Etruschi, poi i Sanniti; questi ultimi, in particolare, promossero un intenso sviluppo urbanistico e segnarono fortemente l’aspetto e l’organizzazione della città.
In seguito alle lunghe guerre sannitiche (IV-III secolo a.C.), anche Pompei, come il resto della Campania, cadde sotto l’influenza dei Romani, mantenendo però la propria autonomia. Schieratasi contro Roma al fianco della Lega Italica, nell’80 a.C. fu costretta alla resa dal dittatore romano Silla, che la rese colonia romana. Da quel momento più evidenti furono i segni di una forte romanizzazione, sia dal punto di vista urbanistico che religioso e culturale. Il carattere sannita della città si fuse gradualmente con quello romano e alla lingua osca subentrò pian piano quella latina.
Alla nuova fase di trasformazione e di sviluppo di Pompei contribuirono vari fattori: l’assegnazione ai soldati romani di aree periferiche della città, lo sviluppo demografico – con conseguente necessità di un maggiore sfruttamento dello spazio – e le condizioni di pace che, insieme alla mitezza del clima e alla posizione sul golfo di Napoli, rendevano la città un centro di attrazione per i ricchi romani e luogo privilegiato per la costruzione delle loro dimore estive. Come a Roma, anche a Pompei personalità facoltose finanziarono la rappresentazione di spettacoli e giochi e la costruzione di opere pubbliche per abbellire la città. Pompei assunse l’aspetto di una vera città imperiale: vitale, lussuosa, ricercata, dedita ai piacere della vita. Fu un periodo di prosperità e benessere, grazie alle intense attività commerciali, agricole e artigianali.

L’ultimo giorno di Pompei
La vita della fiorente città si interruppe improvvisamente il 24 agosto del 79 d.C., quando il Vesuvio si risvegliò e seppellì Pompei, Ercolano e le città limitrofe sotto una spessa coltre di cenere, lapilli e fango.
A quel tempo non vi era memoria della terrificante e inarrestabile forza distruttrice del Vesuvio. Inattivo da otto secoli, era percepito dagli abitanti del luogo come una generosa montagna, ricoperta da lussureggiante vegetazione e dispensatrice di buon vino e di saporiti cinghiali. Eppure, negli anni precedenti l’eruzione, qualche segnale di pericolo lo aveva dato e la terra aveva tremato più volte. Particolarmente violento il terremoto del 62 d.C., che colpì non solo Pompei ma gran parte della Campania, provocando ingenti danni e numerosi morti, tanto che nel 79 d.C. la città era ancora impegnata nell’opera di ricostruzione, come testimoniano tracce di lavori in corso emerse dagli scavi archeologici.
Il 24 agosto del 79 d.C. agli occhi degli abitanti si presentò uno scenario apocalittico. Il tappo di lava che ostruiva il cratere del vulcano fu squarciato dalla violenta pressione dei gas, una nube ardente oscurò il cielo e una pioggia di lapilli e cenere, insieme a colate di lava, pietre e fango, ricoprì il territorio circostante per un raggio di circa 70 km, in direzione sud-est. La caduta di materiale vulcanico continuò anche nei giorni successivi, formando una coltre alta tra i 5 e i 7 metri. Prima ancora del seppellimento e del crollo degli edifici, furono le esalazioni di gas venefico a non lasciare alcuna possibilità di fuga agli abitanti. In poche ore la storia si fermò. Tracce di vita quotidiana, suppellettili, gioielli e persino i resti dei corpi: tutto immortalato per secoli fino ai primi scavi.
Un drammatico racconto dell’eruzione è giunto fino a noi attraverso le lettere che Plinio il Giovane indirizzò allo storico Tacito qualche anno più tardi e nelle quali descrisse, con dovizia di particolari, le terrificanti e concitate fasi dell’eruzione e la morte dello zio, Plinio il Vecchio, che a quel tempo comandava la flotta del Miseno. Attento osservatore dei fenomeni naturali, mosso dalla curiosità e dall’entusiasmo dello studioso, Plinio il Vecchio si imbarcò per prestare soccorso alle popolazioni colpite dalla catastrofe e per osservare il fenomeno da vicino, trovando così la morte, probabilmente soffocato dalle esalazioni di gas.

Primi ritrovamenti e progressi delle tecniche di scavo
All’eruzione del 79 d.C. non seguì alcuna opera di ripristino per recuperare Pompei, irrimediabilmente sepolta. Quei luoghi furono abbandonati e il ricordo della città fu custodito dalle indicazioni della cartografia romana soltanto fino al Medioevo, dopodiché di Pompei si perse anche il nome e al suo posto sorse un piccolo agglomerato chiamato Civita.
Bisognerà aspettare il XVI secolo per i primi ritrovamenti, quando, durante i lavori di scavo diretti dall’architetto Domenico Fontana per la realizzazione di un canale che portasse le acque del fiume Sarno a Torre Annunziata, furono casualmente rinvenuti resti di edifici con pareti affrescate, iscrizioni e monete. Tali ritrovamenti furono solo documentati, ma non collegati alla città di Pompei, e i lavori del canale proseguirono.
La ripresa degli scavi si ebbe a partire dal 1748, sulla scia delle sensazionali scoperte ad Ercolano, per iniziativa di Carlo di Borbone. Se però ad Ercolano la formazione di una durissima coltre di fango rese più difficili le operazioni di scavo, a Pompei, invece, la presenza di uno strato di cenere e lapilli agevolò sicuramente i lavori.
Nel 1860 fu nominato direttore degli scavi di Pompei l’archeologo napoletano Giuseppe Fiorelli, che introdusse la divisione della città in regioni e insule (isolati), numerando tutte le case, e una metodica molto più rigorosa, che integrava alla fase del ritrovamento quella della conservazione. Per impedire il crollo degli edifici, fu introdotta la tecnica dello scavo dall’alto: lo sterro iniziava dal tetto per poi arrivare, per strati orizzontali, ai livelli più bassi. Si sviluppò una maggiore attenzione per l’integrità dei monumenti e si iniziò a privilegiare la conservazione in situ, che lasciava sul posto dipinti e mosaici, fino ad allora trasferiti al museo di Napoli. A Giuseppe Fiorelli si deve anche l’invenzione del metodo del calco, che consiste nel versare del gesso liquido nelle cavità lasciate, nella cenere solidificata, dalla decomposizione di corpi e oggetti. Questa tecnica rese possibile la drammatica ricostruzione dei corpi, a quasi duemila anni di distanza, nell’atteggiamento esatto degli ultimi istanti di vita, oltre a consentire calchi di porte, finestre ed altre componenti delle case pompeiane.
Nel 1911 la direzione degli scavi fu affidata a Vittorio Spinazzola con il quale l’interesse si spostò sui quartieri meridionali della città, ancora poco esplorati. L’obiettivo fu quello di collegare l’Anfiteatro con il Foro; gli scavi furono concentrati lungo la strada principale di via dell’Abbondanza e furono liberate le sole facciate degli edifici adiacenti. Ritrovamenti interessanti indussero più volte gli studiosi ad addentrarsi all’interno delle insule e ad intraprendere scavi di case, poi interrotti e a tutt’oggi abbandonati.
Si giunse così, nel 1924, alla lunga direzione di Amedeo Maiuri, che rimane uno dei periodi più produttivi e innovativi, segnato dalla scoperta di importanti edifici, dal completamento della delimitazione della città e dal compimento di importanti studi scientifici.
Negli ultimi decenni, l’attività di scavo si è pressoché interrotta, per investire le scarse risorse disponibili in una difficile quanto carente opera di conservazione e per arginare il degrado del sito, iniziato con i primi scavi borbonici e perpetrato con restauri sbagliati e manutenzione inefficiente.

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Alla scoperta della città sepolta
Accedendo agli scavi di Pompei, il visitatore viene inevitabilmente sedotto dal fascino unico e suggestivo di una città sospesa nel tempo, la cui vita quotidiana sembra essersi interrotta improvvisamente, immortalata in strade, abitazioni private, edifici e luoghi pubblici straordinariamente conservati. “Mai era venuto tanto diletto all’universo da una sciagura così grave”, scrisse Goethe, rapito dalle meraviglie della città dissepolta.
L’ottimo stato di conservazione dello spazio pubblico consente di ricostruire la vita urbana nel suo complesso, con le attività civili, religiose e commerciali. Esse si svolgevano prevalentemente attorno al Foro, piazza principale e nucleo più antico di Pompei, ubicato nella parte più alta. Situata proprio all’ingresso di Porta Marina, quest’area costituiva il “polo direzionale”: qui sorgevano i palazzi della politica e della giustizia, i più importanti edifici religiosi e alcuni mercati.
Nella parte opposta della città, che si estende su una superficie approssimativamente ellittica, vi era un altro importante fulcro della vita pubblica, con l’Anfiteatro e la Palestra Grande. L’Anfiteatro, costruito intorno all’80 a.C. e destinato agli spettacoli e ai combattimenti tra i gladiatori, è il più antico esistente; la Palestra Grande, di età augustea, adibita allo svolgimento delle attività sportive, era anche un importante strumento di propaganda politica e di diffusione dell’ideologia imperiale tra i giovani.
Un terzo nucleo di edifici pubblici si trovava a metà strada tra i due, con il Foro Triangolare, le Terme Stabiane, il Teatro Grande e l’Odeion, teatro coperto di dimensioni più ridotte, adiacente al primo e riservato soprattutto alle rappresentazioni musicali e alla declamazione di versi.
Le strade, larghe dai 2.5 ai 4.5 metri, avevano marciapiedi alti circa 30 cm ed erano percorse trasversalmente da blocchi di pietra, che ne consentivano l’attraversamento senza bagnarsi o sporcarsi, dato che le strade sopperivano anche alla mancanza di una rete fognaria.

Le case di Pompei
L’elevato numero di abitazioni private, ben conservate e riconducibili a periodi diversi, e la commistione di più stili – greco e sannitico a cui si sovrappose, in modo prorompente, quello romano – offrono un ricco campionario di edilizia residenziale antica, variegata anche nella tipologia: dalle ville patrizie alle abitazioni di dimensioni più ridotte, appartenenti al ceto medio, fino alle case-bottega di commercianti e artigiani.
Al di là delle differenze, è ben riconoscibile una struttura tipica di casa pompeiana, a pianta rettangolare, chiusa verso l’esterno a tutela dell’intimità familiare, come attestato dall’assenza di finestre sulla strada, e organizzata attorno ad una corte interna, centro della vita domestica.
Sull’atrio, dove era collocato l’impluvium, vasca quadrangolare destinata alla raccolta dell’acqua piovana, si aprivano gli ambienti interni, con il tablinum, la stanza in cui si riuniva la famiglia, e il triclinium, la sala da pranzo. Il giardino era interno e situato in un secondo cortile circondato da colonne, il peristilio, di derivazione ellenistica.

Le decorazioni parietali delle case pompeiane rappresentano uno degli aspetti più interessanti degli scavi, costituendo una ricca e straordinaria testimonianza di pittura romana. La tecnica pittorica utilizzata è quella “a fresco”, eseguita sull’intonaco fresco per garantire maggiore penetrazione e resistenza del colore. Al termine dei lavori si procedeva alla lucidatura mediante l’applicazione di un sottile strato di cera.
Le pitture parietali rinvenute nelle abitazioni pompeiane sono state classificate in quattro stili, che si sono susseguiti secondo un ordine cronologico.
Il primo stile è contraddistinto dalla riproduzione di un effetto marmoreo su blocchi squadrati e alti zoccoli.
Il secondo stile, detto anche architettonico, è caratterizzato da giochi prospettici che creano una dilatazione degli spazi, alternando raffigurazioni a soggetto mitologico o religioso a colonnati e altri elementi architettonici.
Il terzo stile risente dell’influenza della cultura egizia, con perdita della profondità prospettica, uso della tecnica miniaturistica – i quadri figurati si riducono di dimensioni e si sovrappongono ad ampi sfondi a tinta unita – e tripartizione della parete in zoccolo, zona centrale e porzione superiore.
Il quarto stile, espressione di sfarzo e benessere,  rappresenta lo sviluppo del precedente. La decorazione si arricchisce di minuziosi elementi di ornamento, a volte eccessivi, e il quadro figurato, quando non scompare del tutto, si riduce ulteriormente e predilige soggetti aulici e mitologici.

Di seguito alcune tra le case più belle di Pompei e forse anche tra le meno conosciute, poiché, per esigenze di restauro o per carenza di personale, non sempre accessibili.

Casa del Menandro
E’ tra le case più interessanti e ricche di Pompei per dimensioni ed eleganza, imponenza e ricercatezza delle pitture e per il tesoro rinvenuto in un ambiente sotterraneo dell’abitazione, all’interno di una cassa di legno. Scoperto nel 1930 e oggi esposto al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, il tesoro include ben centodiciotto pezzi di argenteria di eccellente fattura e straordinaria bellezza, sesterzi e gioielli d’oro.
La casa, appartenuta a Quinto Poppeo, forse parente della seconda moglie di Nerone, Poppea Sabina, risale alla metà del III secolo a.C., ma è stata più volte ampliata e modificata.
Lungo la facciata si trovano le banchine dove i clientes attendevano di essere ricevuti dal dominus. L’atrio, con l’impluvium in marmo, ha le pareti affrescate con pitture di quarto stile e sulla destra un tempietto, il larario, dove si veneravano i Lari, protettori della famiglia. Sulla sinistra si apre un ambiente con pareti decorate da un bellissimo trittico, con scene ispirate alla guerra di Troia: la morte di Laocoonte, strangolato dai serpenti insieme ai figli, Ulisse che strappa Cassandra dal Palladio che proteggeva la città e l’ingresso del cavallo di Troia.
Gli affreschi del “salone verde” raffigurano amorini fra tralci di vite, le nozze di Ippodamia con Piritoo, re dei Lapiti in Tessaglia, e centauri che rapiscono la sposa; sul pavimento un quadretto a mosaico ritrae pigmei che remano sul Nilo.
In una delle quattro nicchie sul fondo del peristilio vi è il dipinto da cui deriva il nome della casa, raffigurante il commediografo Menandro. Sempre sul peristilio si apre la zona termale con il calidarium, con pavimento decorato da un mosaico che riproduce scene di animali marini. Mediante una rampa si scende al quartiere rustico e servile, destinato agli schiavi e alle riserve alimentari.
In una teca sono conservati i resti di dodici corpi, probabilmente abitanti della casa che cercavano una via di fuga durante l’eruzione, o forse saccheggiatori.

Casa degli Amorini dorati
Il nome deriva dagli amorini in lamina d’oro, applicati su dischetti di vetro, che decoravano il cubicolo situato vicino al tempietto dei Lari.
La casa apparteneva alla gens Poppaea, forse famiglia della seconda moglie di Nerone, e rivela un gusto molto raffinato.
A causa dell’esiguo spazio disponibile, presenta uno schema insolito e irregolare, con atrio e tablinum decentrati rispetto agli altri ambienti, disposti invece intorno al peristilio con giardino. Quest’ultimo rivestiva grandissima importanza, come dimostrato dalla ricchezza ed eleganza degli oggetti che lo decoravano: statue, erme, maschere teatrali e medaglioni di marmo scolpiti conferivano un’atmosfera ricercata e suggestiva.
Di grande pregio le decorazioni di due sale, una con la rappresentazione delle stagioni, l’altra con soggetti amorosi: Leda con il Cigno, Venere pescatrice e Atteone che spia Diana al bagno; entrambe le stanze sono caratterizzate da una bellissima volta a cassettoni decorata a stucco.

Casa di Marco Lucrezio Frontone
Il proprietario, Marcus Lucretius Fronto, apparteneva ad una delle famiglie più importanti che si stabilirono a Pompei in età augustea.
Sebbene sia di modeste dimensioni, la casa è di grandissimo interesse per la raffinatezza e la pregevole qualità degli affreschi di terzo stile, soprattutto a soggetto mitologico, che decorano le stanze. Tra tutte, il tablinum, dove, tra scene di paesaggi con ville e giardini, spiccano due quadri mitologici: le Nozze di Venere e Marte e il Trionfo di Bacco accompagnato da Arianna su un carro trainato da buoi. Singolare la scelta dei colori, con netta predominanza del nero, che viene interrotto, sulle pareti, da fasce gialle con arabeschi e scene di caccia e, sul pavimento in lavapesta, dal marmo.
Nella stanza sulla destra del tablinum, dipinta di un giallo caldo e luminoso, si distinguono, tra una serie di amorini, i quadretti raffiguranti Narciso che si specchia nell’acqua e Perona che allatta il vecchio padre Micone.
Nel triclinium invernale è rappresentata una scena tratta dalla tragedia “Andromaca” di Euripide, Neottolemo ucciso dalla spada di Oreste sull’altare di Apollo, mentre su una parete del cubicolo successivo è ritratta Arianna che reca il filo a Teseo. Anche il giardino ha pareti affrescate con animali e scene di caccia.

Casa dei Dioscuri

Rinvenuta tra il 1828 e il 1829, è così denominata per il dipinto raffigurante i Dioscuri, “figli di Zeus,” Castore e Polluce, oggi conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Risulta in realtà composta da tre più antiche abitazioni, unite durante il periodo augusteo, ed è tra le case più grandi e lussuose della città.
Si contraddistingue per la ricchezza degli affreschi di quarto stile, che riproducono architetture e nature morte e per il bellissimo e raro colonnato in stile corinzio dell’atrio, di cui, finora, sono stati rinvenuti a Pompei soltanto quattro esempi. Le due stanze che si aprono ai lati del tablinum sono decorate con scene mitologiche: la Nascita di Adone e Scilla che consegna a Minosse il capello fatato del padre Niso, nella stanza a destra, Apollo e Dafne e Sileno e Ninfa con Bacco infante in quella situata a sinistra.


Casa di Giulio Polibio
I lavori di ristrutturazione,  successivi al terremoto del 62 d.C., ancora in corso in molte case di Pompei al momento dell’eruzione, sono qui testimoniati dal ritrovamento della pregiata suppellettile da mensa, ammassata, insieme a una statua in bronzo di Apollo, nel triclinium.
L’atrio conserva affreschi del II e I secolo a.C.; il pavimento, in alcuni ambienti della casa, è riccamente decorato con marmi bianchi e colorati provenienti dall’Italia, dall’Africa settentrionale, dalla Grecia e dall’Asia Minore.
Nel quartiere servile sono ben conservati la cucina, dove sono state ritrovate stoviglie in terracotta, e il larario dipinto. Nel triclinium, l’affresco mitologico raffigurante la punizione inflitta a Dirce da Anfione e Zeto.
In una sala sono stati rinvenuti i resti di alcuni corpi, identificati dagli studiosi come gli abitanti della casa in cerca di un rifugio.
Dopo gli ultimi lavori di restauro, nella casa è stata sperimentata una visita multimediale, con un approccio sensoriale di tipo sinestetico, che consente la riproduzione affascinante ed emozionante dell’ultimo giorno della domus pompeiana. Sono stati riprodotti i suoni della casa e quelli provenienti dalla strada, compresi i rumori dei lavori di ristrutturazione ancora in corso. Molto suggestivi gli ologrammi di Giulio Polibio, che accompagna i visitatori negli ambienti più importanti della sua abitazione, e di una giovane donna, probabilmente la figlia, in attesa di un bambino.
La visita include inoltre la proiezione di video che mostrano un’accurata e dettagliata ricostruzione della casa.


 



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